mercoledì 3 agosto 2011

Democrazia araba. Il potere costituente che nasce nelle piazze

Analisi In libreria "L'Africa mediterranea" di Mezran, Colombo, Van Genugten

Guido Caldiron
«E' bastata una manciata di settimane per trasformare la sponda nord del continente africano in una polveriera, capace di ribaltamenti politici impensati appena solo qualche mese fa». Per moltissimi anni, talvolta per più di mezzo secolo, dopo la vittoria dei movimenti nazionalisti e anticoloniali, buona parte delle società del Nord Africa erano finite ostaggio di autocrati e di clan di potere che avevano imposto un controllo capillare sui loro concittadini e una repressione talvolta feroce verso ogni forma di dissenso. Poi, d'improvviso, lo scenario è cambiato. «All'alba del secondo decennio del 2000 tutto pare improvvisamente mutare. Prima la rivolta del gelsomino in Tunisia, poi gli eventi di piazza Tahrir in Egitto, la sanguinosa rivolta in Libia, le dimostrazioni in Algeria e Marocco; manifestazioni represse con durezza o addomesticate dalle promesse di riforme da parte dei regimi - per non parlare delle sanguinose rivolte del Bahrain, dello Yemen e della Siria - che hanno rotto l'apparente immobilismo delle società mediorientali».
Di fronte a quanto si è prodotto nello spazio di poche settimane sulla sponda Sud del Mediterraneo e nell'intero Medioriente, in molti, tra gli analisti occidentali, non hanno saputo che ribadire le ragioni dello status quo, giudicando "pericolosa" qualunque innovazione che desse la parola ai popoli di quei paesi e ipotizzando che a trarre beneficio da quanto stava avvenendo non potessero che essere i movimenti più o meno radicali dell'Islam politico. A distanza di qualche mese, pur nella complessità e nella contraddizione dei segnali che arrivano da società tra loro molto diverse, è però già possibile tracciare un primo, necessariamente provvisorio, bilancio. E' quello che ci propongono ora con L'Africa mediterranea. Storia e futuro. Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania e Sahel, il volume che hanno curato, uscito per Donzelli (pp. 226, euro 17,50), Karim Mezran, Silvia Colombo e Saskia van Genugten. Immaginato non come un instant book sulle rivolte, quanto piuttosto come uno strumento per comprendere le radici e i motivi che stanno alla base delle «profonde spinte al cambiamento» che stanno emergendo nel Maghreb e nel Medioriente, il libro rappresenta il primo, prezioso, tentativo di indagare "il senso" della rivoluzione democratica che attraversa il mondo arabo, ricostruendo il contesto di alcuni dei paesi coinvolti e leggendo i fatti di questi mesi nel quadro delle trasformazioni economiche dell'area, del suo rapporto con l'Occidente e dell'affermarsi, grazie alla rete e alle nuove tecnologie, di una nuova politica anche tra gli arabi.
Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma e docente di Storia del Medio Oriente presso il Bologna Center della Johns Hopkins University, Colombo, ricercatrice presso l'Istituto affari internazionali di Roma e van Genugten, dottoranda della John Hopkins, hanno messo insieme una decina di contributi, tra cui quelli di Massimo Campanini, dell'Orientale di Napoli, di Timo Behr, dell'Institute of International Affairs di Helsinki, di Hakim Darbouche, dell'Università di Oxford, di Yahia H. Zoubir, del Marseille School of Management e della giornalista Paola Caridi, offrendo una solida base di informazioni e spunti analitici a quanti siano interessati a "leggere" il più ampio fenomeno sociale che si è prodotto nell'ultimo mezzo secolo, forse superiore all'89 dell'Europa dell'Est, e che è ancora ben lungi dall'essersi arrestato.
Tra i punti chiave della ricerca, la constatazione della "novità" principale di quanto si sta producendo nelle società arabe. Pur preferendo parlare di "rivolte" piuttosto che di "rivoluzioni", i curatori de L'Africa mediterranea, spiegano infatti come «nonostante le necessarie cautele, non si può non notare che qualcosa di rivoluzionario è realmente accaduto. La piazza araba, tanto derisa per il suo silenzio, si è rivelata una piazza straordinariamente differente rispetto a quello che ci saremmo potuti aspettare. Per anni, l'opposizione ai regimi è stata identificata nelle verdi bandiere dell'Islam». E invece «questa volta nelle piazze è sceso un popolo del tutto diverso»: ad esempio a Bengasi, appena liberata, «non solo non si sono udite grida inneggianti all'Islam né si sono viste bruciare le solite bandiere americane e israeliane, ma al contrario gli slogan urlati inneggiavano alla democrazia, alla libertà e perfino alle famose reti televisive internazionali la cui presenza veniva salutata come liberatrice».
L'altro elemento che è fin qui risultato decisivo per l'affermarsi dei movimenti di protesta nei diversi paesi, spiegano Mezran, Colombo e van Genugten, riguarda l'attegiamento degli Stati Uniti. «Negli scorsi decenni, il dogma americano era quello di sostenere, in nome della stabilità e dei rapporti di alleanza, qualunque dittatura, per quanto brutale e repressiva fosse». Ma con il debutto della presidenza Obama, le cose sono cambiate, al punto che Washington a cominciato a far mancare il proprio appoggio «a quei dittatori privi del consenso del popolo». Un passo che ha reso più forti i manifestanti e consentito al movimento democratico di progredire un po' ovunque nell'intero mondo arabo.


Liberazione 05/06/2011, pag 5

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