giovedì 20 gennaio 2011

L'implosione del regime e una gioventù in rivolta Ma con poche prospettive

Leonardo Palmisano
Fino a pochi mesi fa, quando i bagnanti affollavano le spiagge di Djerba, La Marsa, Hammameth, Porte el Kantaoui, Sousse e Nabeul, nessuno poteva sospettare che sotto il regime di questo azzimato imprenditore della politica covasse la brace della protesta e della rivolta. A ben guardare, sgombrando la cortina fumosa dall'onnipresente Ben Alì, da tempo la Tunisia covava l'uovo della rivolta. Già nel dicembre del 2001, durante l'Eid el Fitr (il piccolo Eid, che segna la fine del Ramadan), si erano verificati tumulti in seguito all'innalzamento imprevisto dei prezzi della frutta e del pane, complici i grossisti alimentari - foraggiati dal Presidente, da sua moglie e dai suoi sostenitori internazionali. Parlando con gli oppositori inermi, carcerati nelle loro case nella Medina di Tunisi, scoprimmo che qualcosa si muoveva, che il molle felino della Tunisia aveva voglia di scuotersi e di scrollarsi di dosso un presente di retorica senza pane.
Della Tunisia si parla sempre poco all'estero. Non si sa, per esempio, che Ben Alì prende il potere internando il vecchio dittatore socialista Bourguiba, ultraottuagenario, definendolo pazzo sulla stampa nazionale. È il 7 novembre 1987, data ricordata dalle intestazioni di piazze, viali, vie e monumenti in tutto il paese, per inculcare la memoria della presa del potere e incutere timore alla vecchia nomenclatura laica e socialista. Ben Alì si attesta subito come delfino delle grandi potenze europee, ma soprattutto come grande amico degli Usa. Grazie a lui, la Tunisia si libera dell'ingombrante presenza di rifugiati palestinesi dell'Olp, si distacca da Gheddafi e si avvicina all'Italia di Craxi e agli Usa, divenendone uno Stato satellite. È in quegli anni che investitori italiani intensificano i rapporti con quella porzione della sponda sud del Mediterraneo, trovando lavoratori a buon mercato e ottime condizioni fiscali. L'Italia da bere usa la Tunisia come nuovo terreno di conquista, delocalizzando temporaneamente produzioni importanti come quella della Piaggio.
Ora le cose paiono essere cambiate. Da meno di dieci anni l'economia reale è in caduta libera. Gli interessi degli Usa si sono spostati sull'Algeria e sul Marocco di Mohamed VI, Gheddafi fa meno paura e i rapporti commerciali con i grandi paesi europei sono in netto calo, colpevole anche la crisi finanziaria. A condire il tutto, la chiusura delle frontiere Ue, la proroga a vita della carica presidenziale di Ben Alì e la castrazione mediatica dell'opposizione intellettuale, tutta o quasi fuggita in Francia.
Il regime televisivo e cartellonistico di Ben Alì non regge di fronte all'emergere di interessi reali della popolazione. La Tunisia fa vanto dei suoi laureati, tuttavia non riesce a impiegarne che una misera quantità. Questi nuovi poveri che gravano sulle famiglie sono allo sbando, vivono della speranza di espatriare, condividono aspettative via Facebook con i loro tanti coetanei sparsi nel mondo. Che la protesta serpeggiasse sul web, era chiaro da tempo. I social network sono gravidi di questa intelligenza resistente, di questo cervello giovane che non ce la fa più. E poi c'è il pane quotidiano. Il rincaro dei prezzi al dettaglio, non all'ingrosso come avrebbe voluto farci credere il truffaldino Ben Alì, è la consueta manovra dei grandi fornitori tunisini. Che ramazzano grano, lo stoccano nei silos delle città industriali, per immetterlo sul mercato quando l'innalzamento della domanda produce rendite esagerate. Il paradosso è che parte di questo grano finisce perfino nelle grandi industrie para-statali della pasta come la celeberrima Epi-D'or. Un meccanismo perverso che affama due volte la popolazione: gravando sulle tasse e sul prezzo al dettaglio.
Anche questo spiega perché la protesta non nasce a Tunisi, ma nelle città del poverissimo est, per estendersi al sud, e infine nei centri della gestione politico-finanziaria. A Tunisi, dove vive oltre il 30% della popolazione, gli effetti persuasivi della dittatura sono più forti. Il dispiego di forze militari e poliziesche, la gendarmeria ovunque e il controllo dei media è paragonabile a quello del gemello dittatore algerino Bouteflika. Ma fuori Tunisi, nell'entroterra rurale e pastorale, tra pietre, campi essiccati, colture di sostentamento e allevamenti di accatto, una ignorata carestia due anni fa ha mietuto decine di morti per fame, e qui il regime non attecchisce, non sfonda il muro della miseria e della povertà. Qui i giovani si riprendono il destino. Scendono in piazza, male organizzati ma arrabbiati. Non è un movimento democratico rivoluzionario, perché l'opposizione ai partiti è disarticolata, e difficilmente potrà emergere un nuovo scenario politico a breve termine. Piuttosto una repressione o la presa del potere da parte dei capi storici dell'opposizione interna o dei fedelissimi del presidente dittatore.
Riemergono dagli scantinati le immagini di Bourguiba, viene riesumata la salma iconografica del precedente Presidente, osannato come il fondatore della patria. Questo la dice lunga sulla miopia del movimento contro Ben Alì. Evidentemente Ben Alì è stato abbandonato dalle superpotenze alleate, messo alle strette per sbrigarsela da solo, lui che non ha competenze militari, che ha rimosso il Ministro degli Interni ma non il capo della Polizia, che ha fatto sfoggio nei decenni di diplomazia cenando con tutti i leader europei che gli garantivano prebende (Berlusconi in testa), che ha liberato i manifestanti a cui, più tardi, avrebbe raso certamente al suolo la casa. Questo è l'ultimo vigliacco Ben Alì, diverso dallo sfavillante Presidente che campeggiava nei ritratti posti ovunque, perfino nei cessi dei caffé. Lui non è più lo specchio del paese, se mai lo è stato, perché le sue politiche sono il fallimento definitivo dei processi di democratizzazione dall'alto nel Maghreb.
Lo dicono le rare immagini trasmesse in Italia dalle Tv. I manifestanti sono per lo più giovani, non giovanissimi. Siamo lontani dalle piazze iraniane dei fazzoletti verdi. Qui c'è un'opposizione viscerale che sta assaltando i simboli del potere: sportelli bancomat, supermercati, sedi della polizia governativa. Un'opposizione che vorrebbe legarsi alla vecchia, stanca opposizione culturale chiusa nelle medine, nelle case private dei feaubourg popolari come Bab Djedid, a Tunisi, dove nei covi dei tifosi del Club Africain - la squadra di calcio dell'opposizione che sbeffeggia Ben Alì e la coiffeuse, sua moglie - e nei caffé come l'Etoile du Nord da un decennio si biasima il Presidente a mezza voce, con barzellette e sberleffi in rima. Non c'è ancora una regia, per tutto questo, ma i tentativi sarebbero in corso. Non i media ufficiali, ma gli sms, i telefonini e i caffé sono i luoghi del ritrovo degli oppositori: giovani laureati, periferici, scontenti, anime indomite, donne che alla partenza per l'estero preferiscono una più equa distribuzione del lavoro e delle risorse. Riunioni di condominio, per dividersi il pane e lo zucchero, i beni di prima necessità. Sono i caffè e le case sulle quali incombe la mannaia del coprifuoco, la scure delle perquisizioni e delle sparizioni. Perché il regime è noto per l'uso scientifico che fa del rapimento, dell'occultamento dei cadaveri, del nascondimento della verità.
Ben Alì arrancava prima di partire, mentre ghignavano soddisfatti i suoi vicini d'Algeria, Bouteflika e la sua giunta militare, e il libico Gheddafi che già si propone come modello politico per la nuova Tunisia. La popolazione giovane si mostra già scettica su una ripresa del potere che riconsegni il paese a un presidente più forte. Sta finendo un'epoca? Sì, ne sono certi i nostri coraggiosi informatori. Quelli che nottetempo, in deroga al coprifuoco, trasmettono via sms la battaglia del giorno, superando l'oscuramento. Non ci raccontano dei morti, ma delle vite che erano in piazza. Non i casseurs, incontrollabili nella loro veemenza fisica, ma gli universitari, gli aspiranti medici e avvocati, i figli della Tunisia che ci credeva davvero nel riscatto.
Alla domanda "dov'è l'opposizione?", ci hanno risposto in coro, via Facebook, "l'opposizione è il popolo". Ecco, ancora populismo in un paese che ne ha prodotto in eccesso sin dalla sua indipendenza. Il popolo è stretto intorno al suo destino di classe media nordafricana che scivola velocemente dentro il baratro dell'insussistenza. Le aspirazioni di almeno due generazioni decadono con la velocità degli eventi, e crolla un sistema che si reggeva sulla corruzione, sulla svendita delle coste, sulla rincorsa del modello occidentale. La Tunisia manca di una identità che ne definisca la sorte. Questo ci spiega la rassegnazione dei più colti, già scontenti delle elezioni fissate tra 60 giorni. E questo ci spiega perché in alcune città i saccheggi siano venuti dopo le proteste di piazza. C'è stato un avvicendamento. I manifestanti politici - studenti e laureati - sembrano essersi accontentati dell'autodeposizione di Ben Alì. Il sottoproletariato delle medine e delle banlieues, invece, tira fuori una rabbia compressa e quasi dissennata. Quartieri come Ras Ettabia o Din Din, a Tunisi, rappresentano una concentrazione di miseria violenta, esplosiva, dove non attecchisce ancora l'islamismo acceso perché il modello occidentale è stato davvero interiorizzato via satellite. Qui i giovani non si fanno di colla come nelle periferie o nel centro di Algeri, ma di risse, di sbruffoneria, di occidentalismo raccogliticcio, di calcio, di aspirazioni spropositate: così sfogano la rassegnazione. Bighelloni che intasano i marciapiedi di avenue Bourguiba, nel centro di Tunisi, vendendo sigarette sfuse o mazzetti di gelsomini, lustrando scarpe, quando va bene. Come i gatti della Medina portano i segni delle lotte: chi orbo, chi pieno di cicatrici, chi scalfito precocemente dal tempo. Due gioventù che rimarranno lì, nel limbo, invecchiando nell'attesa che il popolo - questa entità - decida di volta in volta a chi affidare un futuro governo del nulla: fermo restando che non tutti hanno diritto di voto, e che l'iscrizione alle liste elettorali è più una coscrizione per clan che un atto volontario. Ecco perché ogni governo futuro dovrà ricorrere al sostegno dei paesi vicini, quello dell'infida Arabia Saudita, che rammenta la sua presenza con la costruzione di nuove moschee. Quando non alla scaltrezza di Gheddafi, il cui peso nell'Union du Maghreb Arabe (UMA) - di cui fanno parte Libia, Tunisia, Mauritania e i belligeranti Algeria e Marocco per via dell'irrisolta vicenda del Sahara Occidentale - si è accresciuto da quando egli si è autodefinito il miglior capo di stato dell'Africa Settentrionale, il secondo dopo Mandela nell'intero continente. Il panafricanismo del colonnello libico potrebbe svolgere un ruolo di argine contro le idiosincrasie guerreggianti in Tunisia, ma a detrimento, questo è ovvio, della civiltà. In sostanza, il futuro della Tunisia non sembra essere ancora, o per nulla, nelle mani dei soli tunisini.

Liberazione 18/01/2011, pag 2

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