mercoledì 19 gennaio 2011

Obama, dalla parte dei ricchi

Nicola Melloni
Il Congresso americano, con la benedizione di Obama, ha da poco approvato la riforma fiscale che rende permanenti i tagli fiscali per il due percento più ricco del paese (redditi oltre i 250 mila dollari) e li estende alla middle-class, middle-class piuttosto estesa verso l'alto visto che raggiunge appunto detentori di patrimoni fino a 250 mila dollari, che proprio emolumenti da media borghesia non si possono definire.
Si tratta dell'ennesima retromarcia di Obama, forse la peggiore tra quelle fin qui effettuate. Prima una riforma sanitaria pavida, frutto di un compromesso al ribasso che ne ha cancellato qualsiasi significato progressivo, poi una riforma finanziaria che non risolve in nessuna maniera il problema della concentrazione bancaria e quindi non pone le condizioni per evitare un'altra crisi futura. Poi, dopo la batosta delle elezioni di mid-term, il congelamento degli stipendi dei dipendenti pubblici ed ora questi tagli fiscali. Una follia. Rendere permanente l'abbattimento delle tasse per i più ricchi è una scelta regressiva senza nessun fondamento economico ed anzi è una scelta che indebolirà l'economia americana e pure la sua democrazia. Cerchiamo di capirla meglio.
La riduzione del carico fiscale sui più ricchi è un'idea che risale agli anni 80, la famosa reaganomics in cui i più ferventi economisti neo-liberali erano riusciti addirittura ad inventarsi la favola che tali tagli non comportano una riduzione del gettito complessivo: con più soldi nelle tasche, i capitalisti investirebbero e consumerebbero di più, generando nuove entrate fiscali che coprirebbero i tagli. Una fanfaluca, naturalmente, come dimostrato dall'andamento del bilancio americano negli anni Ottanta. Non contenti del disastro, i Repubblicani hanno riproposto la stessa ricetta con Bush junior, facendo esplodere il deficit di bilancio negli ultimi otto anni. I tagli di Bush erano temporanei, ora con Obama sono diventati permanenti. Con quale razionalità? Certo nessuno oramai dice che le riduzioni fiscali si pagano da sole, anzi, l'ufficio del bilancio ha già spiegato che i tagli aumentereanno il deficit di circa 900 miliardi di dollari. I tagli vengono giustificati in altra maniera: lo stimolo fiscale. In tempo di crisi, dice l'entourage presidenziale, sarebbe una follia aumentare le tasse, ed anzi queste vengono ridotte per stimolare i consumi. Pura economia keynesiana, dunque? Certo che no, qui si tratta di "vodoo" economics, roba da apprendisti stregoni. Lo stimolo fiscale ha certamente senso in tempo di crisi, ma ovviamente è il tipo di stimolo a fare la differenza. In un primo momento, breve, la riduzione fiscale farà crescere l'economia, ma i suoi effetti sono di breve durata, il prossimo anno la situazione in termini di consumo sarà la stessa di oggi mentre il deficit di bilancio sarà allargato il che chiamerà, ovviamente, consistenti tagli sociali.
I mercati, lo sappiamo, non perdonano, tengono sotto controllo la disciplina fiscale e il governo Obama ne deve per forza tenere in considerazione il potere. Dunque i tagli per i ricchi verranno finanziati da minori trasferimenti per i meno abbienti.
Proprio quello che ci voleva. L'economia americana è caratterizzata da tassi di ineguaglianza registrati in precendenza, e non a caso, solo nel 1929. L'un percento della popolazione incamera, oggi come allora, oltre il 23 percento del reddito totale. Tale statistica rappresenta non soltanto un problema morale (comunque enorme!) ma anche economico, ed è la ragione vera della crisi finanziaria. Con una classe "operaia" (termine fondamentalmente inesistente in America) con sempre meno risorse e una media borghesia impauperita, l'unica maniera per mantenere i livelli di consumo standard, nell'ultimo decennio, è stata indebitarsi. I mutui subprime non sono altro che questo: un estensione del credito a quella parte sempre crescente di popolazione che non è in grado di tirare avanti con il semplice salario. La similitudine con la crisi del 1929 è decisamente istruttiva. Quello che seguì la caduta di Wall Street, allora, fu però una decisa sterzata in politica economica ed una massiccia redistribuzione del reddito dal capitale verso il lavoro. In fondo, il programma originario di Obama seguiva una simile strategia: sanità pubblica voleva dire drenare risorse da Wall Street in favore dei lavoratori, rinforzando il potere d'acquisto dei salari più bassi con la provvisione di beni pubblici quali la sanità. Come non detto. La riforma sanitaria è stata impostata per non toccare la distribuzione del reddito ed ora arrivano i tagli fiscali in favore dei ricchi. Gli inguaribili ottimisti ci dicono che, in fondo, questo era un compromesso necessario per estendere la riduzione delle tasse alla classe media. Sfortunatamente un americano medio avrà benefici quantificabili in circa 1.500 dollari di sconto fiscale, contro 70.000 dollari di riduzione fiscale per i milionari. Non solo, il guadagno netto per la middle-class sarà cancellato dall'aumento dei tassi di interesse che i mercati richiedono per sentirsi garantiti contro il deficit del governo. Mentre, come abbiamo detto, i più poveri vedranno, inevitabilmente, una riduzione dei trasferimenti.
Robert Reich, già ministro del lavoro di Clinton, ha calcolato che un supplemento fiscale del 2 percento sui redditi milionari e del 5 percento su quelli miliardari avrebbe garantito la sostenibilità di medio periodo del deficit, rassicurando i mercati e liberando risorse per gli investimenti pubblici e per programmi sociali indispensabili per rinsaldare una società allo sbando. Obama ha preferito lisciare il pelo a Wall Street in cambio di un modesto aiuto alla classe media, destabilizzando ancora i deboli fondamentali economici americani e rinforzando il trend di sperequazione economica che è stato la causa principale della crisi. In poche parole, Obama ha scelto di stare dalla parte dei ricchi.

Liberazione 19/12/2010, pag 1 e 7

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