mercoledì 19 gennaio 2011

Porto Fluviale, storia di una lotta metropolitana

Vista dall'alto dei nostri tetti questa parte di Roma è tutta un cantiere in cui scorrono fiumi di macchine nervose e rumorose che si incastrano agli incroci. Sui marciapiedi camminano le persone senza badare a quel grosso cancello di ferro che proteggeva i magazzini del deposito militare posizionato proprio accanto ai binari della ferrovia che porta alla stazione Ostiense. Per molti anni questo palazzo di cemento armato di proprietà del ministero della Difesa è rimasto chiuso ad accumulare polvere mentre il quartiere intorno si preparava ad affrontare grandi cambiamenti che avrebbero visto questa zona industriale dell'ex gazometro, dei mercati generali e del vecchio porto fluviale trasformarsi in quartiere centrale, con l'università, pieno di locali e molto ambito da palazzinari e costruttori. Pezzo dopo pezzo la vecchia Ostiense lascia il posto ad operazioni di ristrutturazione che ne ridisegnano il volto e la natura. Chi cammina sui marciapiedi vede solo il traffico e i palazzi coperti da impalcature, ma noi da questo tetto altissimo vediamo bene le gru che giorno dopo giorno cancellano la storia di una città per costruirne una nuova in cui per noi non ci sarà posto. Per questo da sette anni in centinaia resistiamo nel nostro palazzo occupato. Quotidianamente resistiamo alla cancellazione dei nostri spazi, dei nostri diritti. Non ci opponiamo alla modernità ma all'assenza di futuro. Rappresentiamo un futuro diverso, la lotta per una società radicalmente incompatibile con quella dei palazzinari che divorano la città per i loro smisurati profitti. Da sette anni centinaia di persone riunite nel coordinamento cittadino di lotta per la casa hanno occupato questo palazzo abbandonato di cui sembrava non importare a nessuno. Oggi invece gli appetiti si sono destati e questo edificio, insieme ad altre 15 proprietà del ministero della Difesa, tra immobili e aree, caserme e forti, vengono messi in vendita al migliore offerente che potrà farne ciò che vuole: alberghi di lusso, uffici, centri commerciali ma soprattutto case. Case da far pagare un occhio della testa ai futuri abitanti selezionatissimi di un quartiere vetrina. Più soldi riusciranno a fare i privati, maggiori saranno le entrate per il ministero delle guerre: l'intera operazione potrebbe complessivamente portare nelle sue casse ben 3 miliardi di euro. A questo banchetto parteciperà anche il Comune di Roma che elargendo cambi di destinazione d'uso, aumenti di cubature e volumetrie ricaverà, stando alle previsioni, 600 milioni di euro. Esattamente l'importo dei finanziamenti ottenuti lo scorso anno per Roma capitale e che in quest'anno di rigore dei conti vengono elargiti dal governo centrale sotto forma di palazzi. Quando c'è crisi tutto è lecito compreso rinunciare per sempre ad importanti pezzi di città vendendoli per due spicci (i finanziamenti di un solo anno) ai soliti affaristi privati che già tanto hanno speculato. Le caserme in privatizzazione vengono alla fine di un processo di cartolarizzazione che ha coinvolto decine di migliaia di appartamenti degli enti pubblici previdenziali con i quali un tempo si garantiva un affitto accessibile ed equo a tutta una fascia media di operai e impiegati i cui figli oggi si sono trovati di fronte alla scelta "o ti metti sulle spalle un mutuo a vita per comprare quella casa pubblica in cui hai sempre vissuto o la lasci a chi può permettersi di pagare più di te". Non importa se quel patrimonio è stato costruito con i soldi di tutti noi, con la ricchezza collettiva che abbiamo generato. Le conseguenze sociali di queste operazioni di privatizzazione e cosiddetta riqualificazione sono devastanti: gentrification è un termine ormai molto conosciuto in tutte le principali città europee da Parigi a Marsiglia, da Barcellona a Madrid, da Londra a Berlino. Significa svuotare i vecchi quartieri popolari presenti nel cuore delle città per ristrutturarli e ripopolarli con la gentry (l'alta borghesia) mentre le fasce medio basse vengono costrette a spostarsi dove il costo di un'abitazione è meno proibitivo. La città consolidata con i suoi servizi e infrastrutture per le quali spesso ci si è dovuti battere per anni diviene appannaggio esclusivo delle classe più facoltose mentre per tutti gli altri si prepara un esodo infinito fatto di esclusione, ghettizzazione e marginalità.
Il conflitto di classe non è finito: si è allargato ben oltre le fabbriche a tal punto che i suoi confini arrivano fino alla porta delle nostre case. Un conflitto che si combatte metro per metro sui territori vittime di una speculazione sociale e ambientale senza precedenti. Per questo occupare oggi stabili abbandonati, aree ex industriali dismesse, rivendicare il diritto all'abitare oltre il diritto alla casa significa riconnettersi con le lotte contro gli ecomostri, contro le discariche, gli inceneritori, per l'utilizzo pubblico dei beni comuni e delle immense ricchezze che da essi derivano. Una ricchezza che non può essere gestita in modo privatistico ma invece deve rimanere collettiva a partire da una collettività plurale e meticcia, includente e solidale.
Porto fluviale diventa dunque una linea del fronte, una barricata ideale e materiale contro un sistema ingiusto e inaccettabile. La battaglia per l'utilizzo pubblico delle caserme rappresenta oggi un'importante battaglia per gli interessi comuni contro quelli privati. Ad animarla troviamo in prima fila gli occupanti, uomini donne e bambini che di fronte ad una vita di precarietà hanno scelto la lotta, contro mutui e affitti da rapina hanno scelto l'occupazione e contro la solitudine e la frammentazione sociale hanno scelto di costruire una comunità resistente e solidale. In sette anni hanno trasformato un magazzino impolverato ed inospitale in cento e più case, colorate e dignitose con spazi comuni per i giochi dei bambini e le assemblee, il teatro e la musica.
Finalmente questa comunità è anche riuscita ad aprirsi a quel quartiere che vive al di là del cancello di ferro, ad intrecciare gli sguardi con i passanti e trasmettere forza e determinazione. Siamo la prova, vivente e "occupante", che la gente si adatta malvolentieri ai cambiamenti soprattutto se avvengono sopra le loro teste e senza che possano in alcun modo determinarli.
Testimonianze raccolte da Daniele Nalbone

Liberazione 30/12/2010, pag 16

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