mercoledì 19 gennaio 2011

Il rischio di uno tsunami finanziario devastante

L'Italia è sull'orlo del baratro e una crisi spagnola non ci risparmierebbe

Nicola Melloni
Per una volta possiamo dire che Tremonti ha ragione: la crisi non è finita. Dopo qualche mese di pausa, la tempesta finanziaria che nel corso dell'ultimo anno ha travolto Grecia ed Irlanda sembra riacutizzarsi con Portogallo e Spagna nel ruolo di vittime sacrificali. Soprattutto la Spagna rappresenta uno snodo fondamentale di questa crisi. Gli attacchi speculativi contro Atene sono stati per il momento respinti con gli aiuti europei e con la folle stretta fiscale sui lavoratori greci, e lo stesso è successo a Dublino. Tale soluzione era possibile perchè le economie di Grecia ed Irlanda sono relativamente piccole e quindi è stato possibile per la UE intervenire con piani di salvataggio finanziati dalle economie europee più grandi, in particolare la Germania. Questo non sarebbe possibile in Spagna, che è la quarta economia dell'area euro, in quanto, semplicemente, non ci sarebbero fondi disponibili per salvare Madrid.
Il caso spagnolo è per molti versi simile a quello irlandese. Si tratta di una economia che fino a pochi anni fa era in salute, o almeno così sembrava, caratterizzata da tassi di crescita record e presa come esempio del successo del liberismo trionfante. In realtà era una crescita drogata da due bolle, quella finanziaria e quella immobiliare, che una volta scoppiate hanno rivelato tutti i limiti del mercato. Come e più che in Irlanda il settore bancario spagnolo ha assunto un ruolo preponderante nell'economia iberica ed ora Madrid si trova costretta a garantire le perdite dell'industria finanziaria non avendo le risorse e rischiando, di conseguenza, la bancarotta. Il rischio è di uno tsunami finanziario di proporzioni inaudite, con un'ondata di panico che travolgerebbe l'intera area-euro con conseguente uscita delle economie più deboli dall'unione monetaria. L'Italia sarebbe ovviamente tra le prime vittime di questa situazione. E' vero, l'andamento puntuale dei conti pubblici italiani è stato migliore che in altri paesi. Purtroppo però, l'incapacità dell'economia italiana di produrre crescita rende l'andamento dinamico dei nostri conti potenzialmente esplosivo. L'andamento del debito pubblico è sostenibile, anche in presenza di deficit, se l'economia cresce in quanto le risorse aggiuntive generate potranno essere utilizzate per ripagare i debiti. In situazioni, invece, di crescita zero, come nel nostro caso, concentrarsi solo sull'andamento meno negativo del previsto (e comunque non certo positivo) dei conti pubblici è fuorviante. Anzi, proprio i tagli tremontiani che la stampa nazionale celebra sono una delle ragioni della nostra debolezza, in quanto inficiano le prospettive di crescita future. L'Italia è sull'orlo del baratro e la tempesta che si scatenerebbe in caso di crisi spagnola non ci risparmierebbe.
Più in generale, la possibile caduta della Spagna e l'effetto a catena che questa avrebbe sull'esistenza stessa dell'euro deve far riflettere sul fallimento dell'Unione Europea. Un progetto iniziato a Maastricht nel 1992 con l'adozione di parametri di coesione economica brutalmente monetaristi e proseguito con l'entrata in vigore della moneta unica dieci anni dopo e basato sulla supremazia del mercato sulla politica - un'unione monetaria e non fiscale, con un Parlamento sostanzialmente ininfluente ed il potere decisionale nelle mani di burocati non eletti. Sono stati vent'anni di liberismo duro, portato avanti da ex partiti di sinistra come il New Labour blairiano e la SPD di Schroeder che hanno passo a passo demolito il modello economico e sociale europeo, basato sul capitalismo democratico e sulla redistribuzione del reddito. Il modello mercatista adottato nelle sue forme più estreme da USA e Gran Bretagna ha fatto crescere l'ineguaglianza a livelli impressionanti e, più in generale, nella stragrande maggioranza dei paesi occidentali i redditi da salario sono rimasti stagnanti o sono calati. Di fronte alla diminuzione del reddito disponibile, per mantenere i livelli di consumo elevati, indispensabili per il processo di accumulazione capitalista, si è quindi ricorso alle economie del debito, privato nei paesi anglosassoni (e foraggiato, appunto, da bolle speculative), e pubblico in diversi paesi dell'Europa continentale. Ora questi vent'anni di scellerate politiche economiche chiedono il conto e ci pongono drammaticamente davanti a scelte decisive per il futuro dei nostri paesi. La risposta europea alla crisi in atto è stata finora inadeguata - finanziarie lacrime e sangue in quasi tutti i paesi della UE, che non solo non placano gli appetiti dei grandi speculatori, ma ripetono gli stessi errori del passato, attaccando gli ultimi bastioni del modello sociale europeo, ulteriormente accentuando la polarizzazione del reddito, immiserendo i lavoratori ed uccidendo le prospettive di crescita anche nel medio periodo.
L'attacco concentrico portato dal grande capitale finanziario (ed industriale, nel caso della Fiat) e dai governi contro i diritti ed i redditi dei lavoratori, degli studenti e dei pensionati, non solo non risolverà la crisi dell'euro, ma anzi la peggiorerà. E' dunque arrivato il momento di ripensare le fondamenta stesse della UE, prendere atto del fallimento dell'impalcatura istituzionale modellata sul neo-liberismo e ricostruire da zero un'Europa dei popoli, democratica e non governata dai mercati. E' giunto il momento di analizzare e capire una volta per tutte che l'attuale crisi non è semplicemente una crisi dei mercati finanziari, ma del modello sociale ed economico che abbiamo adottato negli ultimi vent'anni. Pensare che possano essere le liberalizzazioni a rimettere in moto l'economia, come suggerisce Bersani, significa semplicemente non aver colto il nocciolo del problema. La soluzione non è più mercato, tutt'altro. La soluzione consiste nel riportare il mercato sotto il controllo democratico. L'alternativa è il ritorno della barbarie.

Liberazione 09/01/2011, pag 2

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