mercoledì 19 gennaio 2011

Geopolitica dello show business Come nasce la cultura globale

"Mainstream", l'indagine di Frédéric Martel pubblicata da Feltrinelli
Guido Caldiron
Chi ha ucciso Topolino? O meglio: perché Mickey Mouse ha sempre più spesso gli occhi a mandorla, parla arabo e canta in spagnolo al ritmo della musica caraibica? Dopo aver raccontato solo pochi anni fa l'industria culturale americana, Frédéric Martel ha indagato la globalizzazione dell'intrattenimento, il modo e le forme assunte, in un mondo che si è fatto sempre più piccolo, dalla filiera produttiva che alimenta sogni, emozioni e fantasia. Dall'industria cinematografica a quella musicale, dalla produzione su larga scala di format televisivi a quella editoriale, dai parchi d'attrazione ai manga, il sociologo francese ha costruito una sorta di mappa dell'evoluzione di questo comparto "immateriale" dell'economia internazionale che, anche se utilizza spesso linguaggi e simboli "born in the Usa", non potrebbe essere più vario, articolato e in continuo conflitto e concorrenza al proprio interno.
Il suo Mainstream. Come si costrusce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, pubblicato da Feltrinelli (pp. 448, euro 22,00), supera l'abituale dicotomia tra forma e contenuto che caratterizza spesso simili indagini, mettendo in evidenza come, nell'era del digitale e dei satelliti, comprendere "il modo" in cui viene prodotta la merce culturale, significa in larga misura capire anche con che "cosa" si abbia a che fare. Come a dire che più che lamentare l'"americanizzazione del mondo" sul piano culturale, da analizzare davvero è il modo in cui le diverse culture, e in questo caso anche strutture produttive, fanno a tal punto proprie forme narrative e linguaggi nati negli Stati Uniti da renderli del tutto "altri" rispetto all'originale e, al contempo, investono con le proprie originali "visioni del mondo" quel mainstream internazionale dello show business fino a qualche decennio fa strettamente controllato dalle major dell'intrattenimeto a stelle e strisce. Del resto, di cosa si parla, altrimenti, quando si evoca la globalizzazione della cultura?
Già consigliere di Martine Aubry al Ministero del lavoro di Parigi tra il 1997 e il 2000, Frédéric Martel ha pubblicato nel 2006 De la Culture en Amérique (Gallimard) e collabora abitualmente con diverse riviste e giornali, tra cui il Magazine littéraire, Dissent, The Nation e Haaretz. Produttore e conduttore della trasmissione "Masse critique, le magazine des industries créatives su France Culture ha fondato nell'ottobre del 2010 il sito inaglobal.fr, dedicato all'analisi dell'industria dell'intrattenimento e dei media. L'inchiesta che è alla base di Mainstream è durata cinque anni, durante i quali Martel ha viaggiato in lungo e in largo per il pianeta per incontrare i protagonisti del nuovo show business globale. «Le industrie creative oggi non sono più un'entità esclusivamente americana, hanno una dimensione globale», spiega infatti il ricercatore francese, aggiungendo come il suo lavoro sia frutto di una estenuante ricerca sul campo.
«Questa inchiesta - racconta Martel - mi ha portato a Hollywood, ma anche a Bollywood, a Mtv, a Tv Globo, nelle periferie americane alla scoperta di un gran numero di multisala e nell'Africa subsahariana dove ci sono davvero pochi cinema, a Buenos Aires alla ricerca della musica "latina" e a Tel Aviv per capire l'americanizzazione di Israele. Mi sono occupato del piano di conquista di Rupert Murdoch in Cina e della strategia di guerra dei miliardari indiani e sauditi contro Hollywood. Ho cercato di capire come si diffondono il J-Pop e il K-Pop, il pop giapponese e coreano in Asia, e perché le serie televisive si chiamano "drama" in Corea, "telenovelas" in America Latina e "teleromanzi del Ramadan" in Egitto». «Ho seguito la produzione di Re Leone a Broadway con il patron di Disney e le riprese di un film di Bollywood a Mumbai interrotte da scimpanzé. - sottolinea ancora il sociologo - Ho fatto inchieste nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza per capire il ruolo dei media e dei cantanti arabi in questo contesto e ho incontrato l'addetto stamap di Hezbollah per poter visitare Al Manar, il suo network televisivo di Beirut sud».
Al centro della guerra dei media e dell'industria dell'intrattenimento descritta da Martel c'è la ricerca di ciò che si potrebbe definire come "un bestseller" o, come indica fin dal titolo la sua ricerca, di un prodotto "mainstream", quel tipo cultura «che piace a tutti in tutto il mondo». In questa competizione, alla tradizionale egemonia americana si stanno contrapponendo, ad esempio sul terreno televisivo, le emittenti asiatiche e quelle dell'America Latina, mentre il mecato musicale ispanico è già diventato il primo al mondo. Lo scontro non è però soltanto tra le vecchie capitali della produzione "di senso", come Hollywood o New York, e le nuove megalopoli dell'Asia, da Mumbai a Hong Kong, ma anche, trasversalmente tra i diversi "Sud" del pianeta. E lo stesso si può dire dei materiali ideologici che percorrono le nuove autostrade della comunicazione a fibre ottiche. Accade così, segnala Martel, che l'industria indiana del cinema seduca facilmente il mercato africano o che i valori difesi dalla propaganda cinese e dai media musulmani ricordino da vicino quelli della buona vecchia retorica, conservatrice, di Disney.
Perciò, lo show business globale sta cominciando cambiare le rotte e i flussi produttivi di questa industria, a partire dalle narrazioni messe in campo: qualcuno può del resto dubitare della forza ideologica di cartoni animati e serie tv? La ristrutturazione produttiva, cambia così il volto e "la storia" del mondo. «Sta prendendo forma una nuova geografia della circolazione dei contenuti, quella del Ventunesimo secolo - conclude infatti l'autore di Mainstream. I grandi assi di questo scenario sono: scambi nord-sud sempre più asimmetrici e scambi sud-sud sempre più diseguali tra paesi emergenti e paesi più poveri. C'è un paese dominante sempre più potente, me che con l'arrivo delle nuove potenze non sarà più l'unico a dominare. Ci sono paesi emergenti che si sviluppano anche attraverso i loro contenuti. Infine ci sono vecchi paesi dominanti, a cominciare dall'Europa, che rischiano di essere sommersi. Il radicale cambiamento della cultura e dell'informazione nll'economia immateriale e globale è un grande evento dell'inizio del Ventunesimo secolo».

Liberazione 11/01/2011. pag 8

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