mercoledì 19 gennaio 2011

La vera essenza del federalismo di Bossi

Gianluigi Pegolo
La questione del federalismo fiscale torna in primo piano. L'ha richiamata il Presidente della Repubblica nel momento in cui ha sottolineato il valore imprescindibile dell'unità nazionale, l'ha posta Bossi come vincolo al mantenimento dell'attuale maggioranza, sta diventando uno dei terreni principali di possibili convergenze fra Lega e opposizione parlamentare, Pd in testa, che vi vede la opportunità per costruire relazioni funzionali all'apertura di nuovi scenari.
Il terreno è scivolosissimo perché, come è noto, questioni di merito e manovre politiche si combinano al punto tale che rischia di sfuggire totalmente la questione fondamentale e cioè il senso del provvedimento e le sue ricadute, anche se piano piano la coltre di propaganda e i luoghi comuni che ne hanno accompagnato la gestazione si stanno diradando.
Vale allora la pena riprendere le motivazioni originarie di questo tormentato provvedimento per sottoporle ad una prima verifica fattuale. I presupposti da cui si è mossa l'offensiva federalista e che poi ha giustificato l'approvazione della legge delega sono sostanzialmente tre: che in generale occorre garantire alle istituzioni locali il potere di gestire in proprio le risorse fiscali prelevate sui rispettivi territori; che sia necessario definire le prestazioni essenziali che le istituzioni devono garantire e i relativi costi standard per evitare sprechi; che un meccanismo compensativo alla fine riequilibri le dotazioni di risorse, sostenendo quelle istituzioni locali che non sono in grado, in virtù di risorse insufficienti ma nella garanzia comunque di efficiente gestione, di garantire le prestazioni definite.
Questi assiomi alla fine discendono da un presupposto, secondo il quale, a parità di spesa attuale o addirittura comprimendola, è possibile riequilibrare la dotazione di servizi e di interventi strutturali liberandosi di inefficienze e sprechi e al contempo garantendo condizioni di equità sociale. In realtà tale presupposto non è stato mai dimostrato per il semplice fatto che una siffatta operazione di razionalizzazione della spesa compatibile con la garanzia di diritti certi in tutto il territorio nazionale non necessariamente è attuabile. E ciò per due ragioni: la prima è che dato il carattere processuale di tale razionalizzazione si deve scontare che il risanamento non può avvenire immediatamente, e la seconda è che data la cronica insufficienza, specialmente al sud, di alcuni servizi un aumento della spesa in questi campi è assolutamente necessaria. Nella realtà la costruzione della proposta nella sua astrattezza e non dimostrabilità rivela una finalità non dichiarata, ma nota, che è quella dell'ottenimento di un incremento delle risorse disponibili al nord in cambio della riduzione di quelle attualmente garantite al sud, attraverso la gestione locale del prelievo fiscale.
Su questo le forze dell'opposizione parlamentare (Pd e Idv in testa) hanno sorvolato, accettando un'impostazione foriera di conseguenze inimmaginabili. Se però fino ad ora ci si poteva barcamenare spostando l'attenzione sulle soluzioni tecniche più idonee per preservare la garanzia dei diritti, ora il quadro comincia ad assumere connotati più chiari. Due elementi, in particolare contribuiscono a far luce sulla reale essenza del federalismo fiscale nostrano. Il primo sono gli orientamenti di politica economica di Tremonti. Le recenti dichiarazioni sulla gravità della crisi e i provvedimenti già assunti sul piano finanziario indicano in modo inequivocabile che l'obiettivo dichiarato è la compressione della spesa, non una sua espansione.
In tale condizione la funzione riequilibratrice che lo stato dovrebbe assolvere per garantire le condizioni di equità in presenza di risorse locali insufficienti diviene sempre più limitata. Il secondo elemento riguarda la natura dei provvedimenti in gestazione. Da quello sul federalismo demaniale a quello attualmente in discussione nella commissione bicamerale competente sulla fiscalità municipale traspaiono indirizzi volti all'alienazione dei beni pubblici come mezzo di finanziamento locale e al contenimento dei prelievi locali (si pensi alle misure in tema di imposte sugli immobili o di cedolare secca sugli affitti). Senza che peraltro si sappia alcunché sui livelli delle prestazioni (e cioè sui diritti) che si intende garantire.
Il tutto evidenzia, alla fin fine, come l'operazione "federalismo fiscale" si saldi e sia funzionale alla riduzione della spesa sociale e al progressivo ridimensionamento delle funzioni pubbliche. Che in tutto questo il Sud possa trovare giovamento o quantomeno non subire danni è davvero difficile poterlo credere. Alla fine avremo probabilmente la parte più ricca del paese che potrà assorbire risorse aggiuntive e garantire i servizi, col rischio però di subire una loro crescente privatizzazione, e una parte più povera dove mancheranno essenziali interventi strutturali e i servizi saranno non solo privatizzati, ma anche messi a rischio. Ben si capisce allora perché la politica restrittiva di Tremonti non sconvolga più di tanto gli amministratori locali della Lega.
Quello che invece dovrebbe far riflettere è se anche sul federalismo fiscale l'opposizione parlamentare possa permettersi di glissare, oggi dimostrandosi dialogante con Bossi e domani appoggiando i provvedimenti del governo, nella speranza che questo gioco consenta di evitare le elezioni e che, magari, costruisca condizioni più favorevoli per un governo tecnico. Operazioni maldestre e pericolose che alla fine depotenziano ancora di più un'opposizione evanescente, ma che in ultima analisi recano danno, in una fase così acuta di crisi, a quanti già versano in condizioni difficili o a quelle parti del paese nelle quali gli effetti negativi della crisi si sommano ad un'endemica arretratezza.
Gianluigi Pegolo

Liberazione 09/01/2011, pag 1 e 5

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