mercoledì 19 gennaio 2011

Ecco il "dragone" milanese tra prima e seconda generazione

Sergio Basso Già assistente alla regia di Gianni Amelio
e regista del documentario "Giallo a Milano"

Davide Turrini
Così lontani, così vicini. I cinesi in Italia, a Prato, a Milano. Chinatown de noaltri. I vecchi che non muoiono mai, le donne che son sempre incinta, gli uomini che sputano sempre per terra. Luoghi comuni che nascono dalla casuale osservazione del reale e finiscono per diventare ridondanti leggende metropolitane. Giallo a Milano, il documentario diretto dal trentaquattrenne Sergio Basso, pellicola che dal marzo 2010 ad oggi ha girato gli schermi di mezza Italia, Francia e perfino Cina, è uno di quegli esempi di pedagogia cinematografica che potrebbe risultare utile ai fini di una comprensione possibile, pacata e ragionata dei flussi migratori meno conosciuti e più integrabili dall'Oriente all'Occidente.
Tutto ha inizio la mattina del 12 aprile del 2007 a Milano. Il diverbio è noto, le scene di guerriglia urbana pure: i vigili urbani che multano una commerciante cinese rea di aver scaricato merce in via Sarpi fuori orario; la donna che si rivolta animosamente; i "ghisa" che assieme alla polizia reagiscono tentando di portare la donna e la sua bimba in Questura. Poi è il caos. Centinaia di cinesi tra via Paolo Sarpi, Bramante, Niccolini e Lomazzo, sbucano fuori all'improvviso e urlano la loro rabbia, sbandierando vessilli rossi stellati di giallo. Contro di loro decine di poliziotti ad arginare la rivolta tra manganelli e lacrimogeni per almeno dieci ore. Per placare gli animi, dopo qualche mese, la giunta Moratti propone la pedonalizzazione della zona: ipotesi poco amata (dai commercianti cinesi e non), attuazione mal digerita (sempre da entrambi), fine dei lavori in ritardo sulla tabella di marcia (l'apertura ufficiale dell'intero tratto pedonalizzabile dovrebbe verificarsi nel marzo 2011).
In mezzo ci sono Basso e i suoi "quindici ingredienti" per un fare un buon "giallo". Gioco di parole per costruire una detection antropologica su un classico fenomeno di razzismo, intrecciato attorno a una quindicina di uomini e donne cinesi di prima e seconda generazione abitanti in quella zona del capoluogo lombardo. Questi ultimi, probabilmente, più inclini al risotto allo zafferano che al riso alla cantonese (il che non è necessariamente un bene). Prodotto da La Sarraz Pictures, Giallo a Milano sa mostrare, più che dimostrare, una banalissima ma mai ben accetta proposta d'integrazione sociale tra un territorio ostile e una migrazione che per Milano ha origine già negli anni Venti.
«L'aspetto più appagante del lavoro di documentarista è il momento in cui il film trova una funzione di significato sociale, un innesco per un vivere diverso partendo dalle piccole cose», racconta Basso, cinese fluente e un'esperienza come assistente alla regia di Gianni Amelio ne La stella che non c'è, «solo a Milano gli universitari cinesi sono più di duemila. Ragazzi che sanno l'italiano, figli di immigrati di prima generazione. Molti di loro sono venuti a vedere il film, hanno fatto passaparola e a fine proiezione hanno fatto nascere un confronto spontaneo con gli italiani in sala. Venti/venticinquenni cinesi che volevano portare i loro genitori a vedere il film, solo che Giallo a Milano è parlato in italiano e nella parte in cinese sottotitolato in italiano. Ho chiesto così a loro di darmi una mano e insieme abbiamo sottotitolato l'intero film in cinese. Fatto che mi ha permesso, l'estate scorsa, di proiettare il film in parecchie sale cinesi (Pechino, Shanghai, Canton, Chongqing). Lì ho incontrato un pubblico diverso da quello che avevo progettato. Noi qui viviamo un fenomeno di immigrazione in arrivo, là sei nel paese emittente e i cinesi fanno fatica a capire il perché del razzismo nei loro confronti. Si sentono portatori di una cultura e di una economia vincente».

Come si accoppia a tuo avviso il fenomeno migratorio a quello di esportazione di un rampante "modello" economico-commerciale?
Sono tanti argomenti aggrovigliati tra loro. Però un viaggio in Estremo oriente lo suggerirei a chiunque, cambiare per un attimo gli occhiali con cui si guarda la propria realtà, cercando di vedere le cose da tutt'altra ottica, sarebbe utile. Muovendosi per tempo non è nemmeno più un viaggio di lusso, ci vogliono otto ore, come in treno da Milano a Bari. Poi certo, spesso sento dire "tra un po' di anni quando la Cina sarà la prima potenza economica" e mi vien da sorridere. C'è molta ingenuità in questo pregiudizio, perché la Cina è già la prima potenza economica mondiale ed ha già investito in qualunque settore economico e paese. Prendiamo ad esempio l'investimento strategico nelle autostrade africane. Noi europei che abbiamo spremuto dal punto di vista coloniale l'Africa ci siamo fatti soffiare un investimento nello sviluppo di alcune regioni africane. La Cina investe in infrastrutture, ha lungimiranza a tutto tondo che noi da vecchi europei stiamo scordando.

Da italiani abituati a contesti spaziali ristretti, tra la Cina vista ne "La stella che non c'è" o in "Still life" di Jia Zhang-Ke si prova spesso questa sensazione del perdersi in spazi infiniti, non trovi?
La prima volta che arrivai in Cina finii su treno che in sedici ore ci portava in Mongolia. Fu un flash pazzesco. Seicento chilometri di prateria: un ipnosi, vai in midriasi oculare. Perdersi è un segno fortissimo della contemporaneità. Anche l'accessibilità sul web in tempo reale della nostra conoscenza è egualmente inebriante, in senso deteriore, stordente. L'uomo contemporaneo è perso in una sorta di ansia gnoseologica. Poi arrivi in Cina e ti perdi in spazi sterminati e cominci a riflettere su questo mondo parallelo che ha una sua cultura plurimillenaria e provi come un senso di vertigine. Noi europei abbiamo i presocratici, Platone, fino ad Heidegger, ma loro hanno altrettanto. L'uomo in quante vertigini del genere può perdersi? Allora per me c'è un bivio: o ti lasci andare in questo gioco di specchi e ti procuri un senso di piacere, oppure dietro l'angolo ti attende il delirio, lo scoramento dovuto al fatto che è difficile conoscersi. Io opto per la prima strada, ma nel nostro presente è tipica la seconda: sono tanti gli scatti xenofobi della vecchia Europa, il terrore di dover rimettersi in gioco.

Invece qual è stata la sensazione una volta immerso negli stretti spazi milanesi attorno a via Sarpi?
Io sono di origini milanesi e ho scelto di girare questo documentario per impormi di capire meglio il quartiere dove avevo vissuto. Il primo passo è sempre stare con gli uomini, senza grossi obiettivi, se non condividere il tempo. Conoscendo la lingua cinese e insegnandola gratuitamente ai cinesi di via Sarpi, la gente ha iniziato a sciogliersi, mi ha invitato ad alcune feste, lentamente ciascuno mi ha aperto la porta di casa. Ho scoperto che non c'è nessun muro, non c'è nessuna comunità chiusa, i cinesi non sono una loggia massonica segreta che condivide segreti inconfessabili da cui ci escludono. Sono invece una miriade di persone esattamente come noi. Ed ogni uomo è un filo di storia basta tirarlo. Così è iniziato il mio lavoro per Giallo a Milano. E mi sono accorto che tante incomprensioni tra italiani e cinesi derivano da una cosa semplicissima: spesso non si bussa alla porta dell'altro, del vicino di casa, per prendere una fetta di torta insieme.

Liberazione 09/01/2011, pag 16

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