venerdì 28 gennaio 2011

Parmalat, metafora del capitalismo italiano

Nicola Melloni
Il processo Parmalat offre uno spaccato interessante ed istruttivo sui cambiamenti che hanno caratterizzato il capitalismo negli ultimi trent'anni. Un capitalismo che in Occidente si è via via spostato dal settore produttivo a quello finanziario, emarginando il lavoro ed intaccando il tessuto sociale delle democrazie emerse dal secondo conflitto mondiale. In questo contesto le banche sono emerse come nuovo soggetto dominante, soprattutto nel mondo anglosassone e questo ha modificato drammaticamente il rapporto tra finanza ed industria. L'enorme massa di liquidità formatasi sui mercati internazionali ha fatto sì che le istituzioni finanziarie si siano trasformate da intermediari in investitori, in molti casi assumendo il controllo indiretto delle imprese. Grazie alla mobilità e alla flessibilità del capitale, questi grandi investitori hanno imposto all'industria la necessità di concentrare i propri sforzi nella massimizzazione del valore di breve periodo delle azioni, drogando il mercato oltre ogni limite. E' stata questa la base del sistema di bolle e crash finanziari che ha sconvolto l'economia internazionale negli ultimi anni, dall'Asia alla Russia, dalle DotCom alla presente crisi dei subprime. Il capitale finanziario si è mosso in maniera vorticosa, ricercando le possibilità di guadagno più facili ed immediate, ma dimenticando che gli obiettivi economici delle imprese non possono giudicarsi solamente sul valore corrente della capitalizzazione. Anzi. L'investimento industriale, soprattutto quello innovativo, è necessariamente una scommessa sul futuro, ma non c'è futuro per il capitale speculativo che vive solo sul presente.
Lo strapotere dell'industria finanziaria ha modellato a sua immagine e somiglianza il nuovo capitalismo neo-liberale, cancellando il compromesso capitale-lavoro su cui si fondavano le democrazie occidentali. Redistribuendo una parte del profitto dalle imprese ai lavoratori si aumentava il potere di acquisto dei cittadini (che quindi sostenevano le vendite dell'industria) e si permetteva la riproduzione delle relazioni di produzione in un contesto di relativa pace sociale. Nel nuovo ordine economico, invece, il lavoro è diventato solamente un costo da comprimere il più possibile. In quest'ottica non è dunque sorprendente che le borse calino quando giungono notizie di miglioramento dell'occupazione - agli occhi degli investitori-speculatori questo vuol semplicemente dire che una parte maggiore del reddito nazionale va in salari, cioè, dal loro punto di vista, in costi.
Si tratta di un sistema fortemente antidemocratico che stravolge le relazioni sociali di produzione e ha portato, come abbiamo visto in questi anni, alla dittatura del mercato. Un sistema con dei costi sociali immensi e che si porta dietro l'instabilità economica, la speculazione finanziaria ed i crolli ad essa associati.
Questo tipo di organizzazione economica comporta però un altro rischio, quello della corruzione. Ovviamente, in una situazione in cui il tipo di incentivi porta a gonfiare artificialmente i guadagni di breve periodo, il rischio di operazioni fraudolente è sempre presente. Lo aveva dimostrato in maniera eclatante il caso Enron e lo conferma il processo Parmalat. Le banche che stavano dietro Tanzi erano perfettamente al corrente dell'andamento dei conti di Parmalat e ne hanno lucrato a spese dei piccoli investitori che si sono trovati con pungo di mosche allorquando l'azienda fallì. Qui però interviene una differenza di grande rilievo tra il capitalismo finanziario nella sua forma pura, quella anglosassone, e quella spuria che vediamo nel nostro paese. In Italia, è sotto gli occhi di tutti, le regole sono costantemente ignorate. Certo, i furti e gli aggiotaggi avvengono anche negli Stati Uniti, dove però esiste un sistema sanzionatorio che cerca di riequilibrare la naturale tendenza del sistema alla violazione delle regole. In Italia, invece, è l'intera organizzazione economica ad essere bloccata dalla cancrena della corruzione. Si tratta di una forma di capitalismo drammaticamente arretrato, da periferia del mondo industrializzato. E' un capitalismo basato sulle relazioni personali e non su quelle di mercato, impersonali per definizione; un modello economico in cui i piccoli risparmiatori vengono sfruttati e lasciati sul lastrico senza nessuna possibilità di difendersi. Un sistema che porta agli eccessi che sono sotto gli occhi di tutti, dai furbetti del quartierino ai palazzinari, tutti membri di quel paludoso intreccio di interessi tra finanza, industria e politica che crea oscuri giochi di potere. Un obbrobrio che ha come suo epifenomeno più visibile il conflitto d'interessi ma che non si limita certamente a Berlusconi e alla sua maleodorante truppa di faccendieri, avvocati, nani e ballerine. In Italia manca da sempre una cultura dignitosamente liberale e borghese: imprenditoria e politica sono sempre andate a braccetto per salvaguardare i propri interessi e le banche sono divenute lo strumento privilegiato di questa orgia di potere. La concentrazione finanziaria ha generato anche la concentrazione del potere, ed un potere politico-economico monopolistico senza regole e contrappesi è l'anticamera della dittatura. Un capitalismo corrotto non può che produrre un sistema politico corrotto. Come direbbe Marx, le relazioni di produzione determinano la propria sovrastruttura politica ed il corrispondente tipo di coscienza sociale. Credere che si possano risolvere i problemi dell'Italia con la sola cacciata di Berlusconi - cosa per altro indispensabile - sarebbe dunque illusorio e deleterio. Di cambiamenti ben più profondi ha bisogno il nostro paese.


Liberazione 20/01/2011, pag 1 e 5

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