lunedì 17 gennaio 2011

I forchettoni neri

(prima parte)
di Caio Gregorio
La fascistopoli del sindaco Alemanno presenta molti aspetti di continuità con quanto avvenuto sotto precedenti amministrazioni romane, ma anche notevoli elementi di novità.
Ad oggi, si parla di oltre 4.000 assunzioni in due anni nell’ambito delle aziende ex municipalizzate, in particolare AMA, ATAC ed ACEA, ma non è escluso che questi numeri possano lievitare ulteriormente, coinvolgendo altri settori nella disponibilità del sindaco, come gli appalti per forniture di beni e servizi e le consulenze generosamente affidate.

Ciò che desta particolare scandalo è l’entità delle assunzioni e la loro inutilità rispetto alle esigenze della città: per esempio, all’azienda che gestisce un aspetto strategico nella vita metropolitana, quale quello del trasporto pubblico, mancano almeno 140 autisti per gli autobus, con il conseguente disservizio che tutti possiamo immaginare e, soprattutto, constatare quotidianamente sulla nostra pelle di cittadini. Ebbene, fra le centinaia di assunzioni per chiamata diretta avvenute dall’elezione di Alemanno, non si trova nemmeno un autista, mentre abbondano impiegati, funzionari e dirigenti, la cui incongruità appare evidente dalla disponibilità di tempo che hanno per chattare su Facebook, come si è visto nel caso dell’ex terrorista nero installato negli uffici ATAC di Via Prenestina e dei suoi colleghi, che hanno passato sul social network alcune ore a scambiarsi opinioni e consigli sul sistema migliore per sterminare gli studenti “rossi” che manifestavano sotto i loro uffici.
Il clientelismo non è certo un’invenzione di Alemanno, e nemmeno le giunte di centrosinistra si sono sottratte a questa consuetudine, ereditata dai tempi eroici della Roma democristiana. Si potrebbero fare i nomi di molti personaggi senza arte né parte collocati dalla sinistra nei C.d.A. delle aziende pubbliche e poi assunti a tempo indeterminato, e forse qui risiede la ragione della scarsa aggressività della cosiddetta opposizione (compresa quella di “sinistra radicale”) nell’iniziativa contro la fascistopoli romana. Sta di fatto, tuttavia, che le dimensioni qualitative e quantitative dell’attività della giunta di centrodestra rappresentano qualcosa di più della perpetuazione dell’eterno clientelismo capitolino.

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Fascistopoli si caratterizza come una torta a più strati, alla cui base si situano le centinaia di galoppini fascisti o berluscones assunti a livello operaio o impiegatizio per soddisfarne le legittime (per modo di dire) aspettative di ricompensa per i servizi resi in tempi più o meno lontani, servizi che, in certi casi, si possono considerare imbarazzanti. Camerati di antiche scorribande squadriste, per esempio, ma anche procacciatori di consensi nel sottoproletariato metropolitano e nella piccola borghesia orfana della balena bianca. Non va dimenticato che gli ultimi fuochi democristiani a Roma portavano i nomi di gentiluomini come “il Monaco” Giubilo o “lo Squalo” Sbardella, e che ancora siede in Parlamento, nelle stesse file del sindaco Alemanno, un certo Ciarrapico, faccendiere fascistone tanto ingombrante, quanto impenitente.

Lo strato intermedio della torta è costituito da personaggi più presentabili, ai quali sono stati conferiti i più svariati incarichi di consulenza ben retribuita, nonostante proprio la denuncia dell’uso disinvolto dei “consulenti” da parte delle amministrazioni di Rutelli e Veltroni sia stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale dell’attuale sindaco e dei suoi camerati.

La parte superiore della torta è quella meno investigata, ma probabilmente la più interessante. Qui troviamo ex squadristi e picchiatori di buon calibro che, ad un certo momento della loro vita, si sono trovati di fronte ad un bivio: continuare nelle scorribande e negli agguati in camicia nera contro i “rossi”, oppure indossare un bel doppiopetto e iniziare la scalata sociale. Diciamo che questo bivio esistenziale si è presentato ai nostri bastonatori quando sulla scena del Paese si è proiettata la parabola, breve ma violentissima, dei N.A.R. di Mambro e Fioravanti.

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Nonostante l’assassinio del giudice Amato e del capitano Straullu, un rinnovato impulso investigativo portò ben presto allo smantellamento della rete politico-criminale che proteggeva il ristretto nucleo di pistoleri e bombaroli neofascisti. Va anche detto che a quell’impulso investigativo non fu affatto estraneo il venir meno di antiche e consolidate complicità all’interno degli stessi apparati dello Stato, nel quadro della generale ridefinizione dei rapporti sociali e politici che ha segnato la stagione susseguente la sconfitta dei movimenti rivoluzionari degli anni 70 e la disfatta operaia dopo i 35 giorni di occupazione della FIAT, seguita dalla ristrutturazione di Romiti e dalla fine di ogni seria conflittualità sindacale. In questo contesto, il ruolo della manovalanza nera non rivestiva più grande importanza, finendo anzi per rivelarsi controproducente.

E’ dunque nella prima metà degli anni 80 che una parte significativa dello squadrismo romano, non coinvolta o soltanto lambita dalle vicende dei N.A.R. (con annessi legami con la malavita organizzata), inizia la sua lunga marcia nell’impresa, più o meno legale, e nella politica, senza per questo troncare ogni legame con il proprio passato e nemmeno quelli con i camerati più scomodi.

L’irruzione sulla scena del Cavaliere Nero e il suo sdoganamento del Movimento Sociale Italiano, attraverso il sostegno alla candidatura dell’allora segretario missino Gianfranco Fini come sindaco di Roma, hanno consentito la progressiva emersione dei vecchi squadristi, che hanno potuto così completare il loro riciclaggio da gorilla di strada a rispettabili imprenditori o uomini politici presentabili. Ancor prima della prima vittoria elettorale di Berlusconi, tanto per dire, il famoso “Pecora”, Teodoro Buontempo, era trasfigurato da manesco manovale del neofascismo addirittura ad “apostolo delle borgate”, portavoce nelle stanze del potere rutelliano dei bisogni e dei problemi della dimenticata plebe romana. Questa ricollocazione non era priva di realtà, tutt’altro: al progressivo abbandono da parte della sinistra dei propri riferimenti culturali e del proprio insediamento sociale, faceva da riscontro la sempre più massiccia presenza degli attivisti di destra, nelle scuole, nei quartieri ed in molti luoghi di lavoro.

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L’attivismo dei militanti del MSI prima e di Alleanza Nazionale poi all’interno della magmatica e talvolta melmosa composizione di classe romana è stato un fenomeno troppo a lungo sottovalutato da una sinistra sempre più salottiera e narcisista, convinta di rappresentare la sola classe dirigente della città ed il solo referente affidabile per i suoi storici poteri forti, dalla lobby dei palazzinari alle gerarchie vaticane. Inoltre, mentre nelle scuole della borghesia, nei licei, continuava a manifestarsi una predominanza dei collettivi e dell’impegno politico di sinistra, negli istituti professionali e, soprattutto, fra i giovani senza cultura e senza futuro della sterminata periferia, andava affermandosi la presenza attiva e l’influenza ideologica e comportamentale della destra e dell’estrema destra, anche facendo leva senza scrupoli sul disagio provocato dal crescente afflusso di immigrati e sull’enfatizzazione del ruolo dei rom, gli zingari, facile bersaglio di ogni propaganda razzista e xenofoba.

Sulle basi del consenso popolare così costruito, nella seconda metà degli anni 90 Alleanza Nazionale è diventata il primo partito in molti quartieri popolari, capitalizzando più di Forza Italia il vuoto lasciato dalla vecchia D.C. e guadagnando il sostegno di quei settori di popolo esclusi ed emarginati dalle sciagurate politiche di privatizzazione e di liberismo condotte dalla “sinistra” al potere in Campidoglio. Forti di questo sostegno, i vecchi squadristi, insieme ad altri di nuova generazione, hanno iniziato ad uscire allo scoperto nelle loro nuove vesti, celebrando il loro trionfo nella primavera del 2008, quando l’ex squadrista, nonché genero devoto dell’ideologo e fondatore di Ordine Nuovo, nonché amico e sodale di molti nomi del terrorismo nero, è asceso alla massima carica della Città Eterna.

Fine della prima parte

http://www.contropiano.org/Documenti/2010/Dicembre10/31-12-10ForchettoniNeri.htm

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(seconda parte)*
di Caio Gregorio
Le migliaia di galoppini assunti con chiamata diretta dalle aziende del Comune di Roma dopo la vittoria elettorale di Alemanno rispondono all’esigenza di ricompensare sia la manovalanza nera che quei settori “popolari” che hanno contribuito in maniera determinante al successo delle liste neofasciste e berlusconiane. A ben guardare, si è trattato di un’operazione nel più classico stile democristiano, con un di più di velocità e di assoluta indifferenza verso il contesto strutturale in cui la stessa operazione viene effettuata.
4.000 assunzioni nell’arco di due anni sono un’enormità, una cosa più da pieno impiego in stile sovietico che da governance liberale. Una tale forzatura è avvenuta parallelamente al taglio selvaggio di servizi pubblici e nel quadro della più grave crisi economico-finanziaria conosciuta dal capitalismo dopo il 1929. Qualcuno potrebbe sostenere che, in fondo, Alemanno si è ispirato al welfare mussoliniano, a quell’intervento dello Stato nell’economia che costituì la versione italiana del New Deal roosveltiano, ma il paragone non sta in piedi.

Negli anni 30 del secolo scorso, analogamente a quanto avveniva negli U.S.A. su impulso delle teorie di Keynes, il governo italiano promosse un massiccio piano di investimenti pubblici e di assunzioni nella Pubblica Amministrazione, legando la tendenza al pieno impiego al rafforzamento ed allo sviluppo di una forte struttura produttiva. La versione caricaturale del fascismo alla vaccinara di Alemanno prescinde totalmente dalla struttura produttiva, ed anche dalla semplice utilità sociale, virando verso il più abietto clientelismo, a spese della collettività.

Credo sia questo il punto da sottolineare: le assunzioni di Alemanno non solo sono clientelari, ma peseranno sulle condizioni di vita di una popolazione già duramente colpita dalla crisi e da anni di scellerate privatizzazioni realizzate dalle giunte di Rutelli e Veltroni, rispetto alle quali la giunta Alemanno ha aggiunto un surplus di arroganza. In altre parole, il conto degli stipendi delle migliaia di inutili parassiti insediati in comodi uffici – mentre la città avrebbe bisogno di autisti dei mezzi pubblici, di operatori ecologici, di personale scolastico, di operatori sociali, ecc. – lo pagheranno i cittadini romani, compresi quelli che non nascondono una sorta di ammirazione verso un uomo politico che “aiuta gli amici”, naturalmente sperando di poter accedere a quella cerchia di “amici”. Un esempio del costo sociale per la cittadinanza della disinvoltura di Alemanno e dei suoi è arrivato con una Delibera di giunta dello scorso settembre, scivolata nell’indifferenza generale delle cosiddette opposizioni, compresa quella della “sinistra radicale”.

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Con la Delibera n. 281 del 15 settembre 2010, il Comune di Roma ammette sostanzialmente di non essere in grado di versare nei tempi dovuti i compensi destinati alle aziende del privato sociale che gestiscono i servizi sociali e assistenziali per conto del Comune stesso, quali l’assistenza ai disabili ed agli anziani, il sostegno ai minorenni in difficoltà, l’assistenza educativa ai bambini delle scuole materne, elementari e medie, ecc. A seguito di tale presupposto, il Comune decide di garantire, certificandolo, il debito che ha verso quelle aziende, formalmente favorendole ma, di fatto, obbligandole a ricorrere al credito bancario, ovviamente scaricando sulle aziende stesse ogni onere economico relativo all’operazione.

In pratica, funziona così: le cooperative cui il Comune non riesce a pagare il lavoro effettuato potranno (leggi: dovranno) rivolgersi alle banche, che verseranno loro quanto dovuto dal Comune, per rivalersi successivamente sul Comune stesso. Naturalmente, non essendo le banche istituzioni filantropiche, queste tratterranno dai versamenti alle cooperative una certa percentuale, mediamente intorno al 3% dell’importo dovuto dal Comune: questo comporta, per una cooperativa di medie dimensioni, un salasso di circa 60.000 euro l’anno, a tutto vantaggio della banca.

Ma non finisce qui: logica vuole che, se il Comune di Roma non è in grado di far fronte nei tempi dovuti ai suoi impegni nei confronti di chi lavora per lui, meno che mai sarà in grado di farlo nei confronti delle banche, il che farà scattare le conseguenti ed inevitabili penali, con il brillante risultato di far aumentare sia il costo dei servizi sociali che l’indebitamento pubblico verso le banche. Indovinate un po’ chi pagherà questo aumento dei costi.

Se la cosiddetta opposizione si sta mostrando timida verso la fascistopoli/parentopoli nelle aziende pubbliche, sullo scandalo dei servizi sociali consegnati alle banche a spese dell’intera cittadinanza non ha nemmeno fiatato, né in Consiglio comunale, né nella città. I motivi di questo silenzio andrebbero indagati, perché appare impossibile che possa trattarsi di mera incompetenza. La realtà è che qualcuno sarà pure veramente incompetente (e questo è già grave), ma qualcun’ altro con la cricca di Alemanno ci convive piuttosto bene, urlando slogan antifascisti di giorno e incassando qualche finanziamento per le proprie attività al calar della sera. Anche qui, provate ad indovinare chi paga il conto.

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L’operato della giunta Alemanno appare, quindi, più sofisticato di quanto si possa immaginare, tanto è vero che, a conti fatti, in due anni di malgoverno della città la difficoltà maggiore gliel’ha creata il biondo Tevere con il suo rischio di esondazione, non certo l’opposizione politica. Fra clientelismo dispiegato verso gli “amici” e dazioni oculate verso i “nemici”, il camerata Alemanno ha mostrato di sapersi muovere… anche perché, diciamocelo francamente, con una “opposizione” come quella che si ritrova, avrebbe dovuto essere un perfetto imbecille per avere fastidi. E Alemanno imbecille non è.

Tuttavia, la poltrona del sindaco in camicia nera inizia a traballare. Fino ad ora, ci siamo occupati degli strati più bassi della torta, fra galoppini ricompensati e “oppositori” in saldo da fine stagione. Ma è avvicinandosi alle ciliegine che la torta diventa veramente gustosa, talmente gustosa che potrebbe andare di traverso al suo ingordo pasticciere.

Fine della seconda parte

http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Gennaio11/04-01-11ForchettoniNeri2.htm

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(terza puntata…ma non l’ultima)
di Caio Gregorio
Siamo finalmente arrivati alla sommità della torta di Alemanno, dove non ci sono manovali dello squadrismo da “sistemare” o oppositori che si mettono a tacere con qualche migliaio di euro di finanziamenti per “iniziative sociali” o lasciando in pace qualche occupazione. Qui si fa sul serio, da qui si domina e si maneggia la città, in compagnia di porporati, costruttori e poteri forti.
Si è parlato molto del neonazista Stefano Andrini: condannato a suo tempo per il tentato omicidio di due giovani di sinistra picchiati selvaggiamente nel 1989 insieme ad una squadraccia di naziskin, viene arrestato nuovamente nel 1994 nel corso di scontri con militanti di sinistra, dopo essersi avvicinato all’ex leader di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie, noto come “er Caccola” per la non imponente statura. Il cursus honorum di Delle Chiaie comprende la partecipazione alla fondazione di Ordine Nuovo ed un discreto curriculum al servizio di Pinochet ed altri gorilla latinoamericani degli anni 70 e 80, come sintetizza Wikipedia: “(Delle Chiaie) Ebbe coinvolgimenti con il regime di Augusto Pinochet in Cile, partecipando alla Guerra sporca e all'Operazione Condor per l'azzeramento dei dissidenti. Sempre in Sud America, aiutò il dittatore Luis García Meza Tejada a prendere il potere in Bolivia con un colpo di stato (1980). Il gruppo paramilitare che lì dirigeva assieme al neofascista Pierluigi Pagliai e al criminale nazista Klaus Barbie si autodefinì i fidanzati della morte e fu responsabile di numerosi omicidi e torture contro esponenti politici e cittadini. (…)”.

L’amico dei vecchi fidanzati della morte viene insediato nel 2009 sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali, nonostante le proteste dell’opposizione, delle quali Alemanno non si cura e che, comunque, finiscono presto. Infatti, Andrini sarà costretto a dimettersi non a causa del suo torbido passato e delle flebili proteste dell’opposizione, ma per il suo coinvolgimento nella falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore di proprietà di Gennaro Mokbel e delle famiglie della ‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto. E il nome di Mokbel ricorre spesso, quando si parla del sistema di potere romano impostosi dopo l’elezione del sindaco in camicia nera.

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Secondo il giornalista dell’Espresso Emiliano Fittipaldi, che ha curato un’ottima inchiesta sulle poltrone conferite a fascisti e nazisti nella Roma di Alemanno, l’inchiesta su Mokbel ed il gigantesco giro di truffe ed altro che lo ha reso ospite delle patrie galere, non fa dormire sonni tranquilli al primo cittadino con la croce celtica al collo.

La magistratura, fra le molte altre cose, indica i rapporti di Mokbel con Massimo Carminati, che Fittipaldi ricorda essere uno dei fondatori dei NAR, fondatore di Avanguardia Nazionale e, soprattutto, sodale della Banda della Magliana: il personaggio del “Nero” del film e della fiction “Romanzo criminale” è ispirato a lui. Della cricca di Mokbel fa parte anche un certo Silvio Fanella, che i magistrati considerano il cassiere della cricca stessa.

Nel luglio 2000, Fanella rileva il 50% delle quote della “Mondo Verde”, società fondata dall’attuale capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. In quella data, Antonio Lucarelli aveva già lasciato l’impresa, impegnato nel suo ruolo di portavoce dell’organizzazione di estrema destra Forza Nuova: è lui che gestisce le mobilitazioni contro il Gay Pride, arrivando a minacciare l’uso della forza per impedire fisicamente la manifestazione dei “froci”. Dopo pochi mesi, però – rivela l’Espresso – Fanella rivende le sue azioni ad “una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti – come ha rivelato Repubblica - il cognato di Gennaro Mokbel”.

Moro gestirebbe oggi i “punti verdi qualità” in alcuni quartieri di Roma, fra i quali Nomentano e San Basilio. I “punti verdi qualità” sono terreni di proprietà comunale che vengono assegnati a privati a seguito dell’impegno ad attrezzarli a verde pubblico, con la possibilità di costruirvi installazioni finalizzate al loro utilizzo, quali bar, ristoranti, impianti sportivi, ecc. Altri due “punti verdi” (a Castel Giubileo ed a Forte Ardeatino) sarebbero poi controllati da tale Giancarlo Scarrozza. Chi è costui? E’ il marito di Lucia Mokbel, sorella di Gennaro, di cui è dunque il già citato cognato. Il cognato di Mokbel, dunque, dopo aver lavorato per la Mondo Verde della famiglia Lucarelli, condivide con Fabrizio Moro, l’amico di Lucarelli, la gestione dei “punti verdi qualità”. Pure coincidenze, naturalmente.

Un’altra vicenda che interessa il capo della segreteria di Alemanno presenta aspetti decisamente curiosi. Sin dagli anni 80, Antonio Lucarelli risulta locatario di alcuni terreni di proprietà di Propaganda Fide, situati sui due lati della Via Nomentana, poco all’interno del Grande Raccordo Anulare. Su questi terreni, sono stati edificati alcuni manufatti di grandi dimensioni, affittati poi ad una serie di attività commerciali, che ne avevano fatto una sorta di Auchan ante litteram, cioè un grosso centro commerciale dove si trovava di tutto, dagli elettrodomestici ai casalinghi, dagli articoli da campeggio all’arredamento, per una superficie coperta di migliaia di metri quadrati.

Il problema di Lucarelli era che quelle migliaia di metri quadri di manufatti, che dovrebbero garantire un’ottima rendita, sono tutti abusivi: lo rileva un oscuro geometra del Comune di Roma all’inizio degli anni 90, e da lì parte il relativo e farraginoso iter sanzionatorio, che – come spesso avviene a Roma – non produce alcuna iniziativa.

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Eppure, quegli abusi non possono essere sanati: un documento della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici datato maggio 1997 afferma perentoriamente la “non suscettibilità di sanatoria (…) per le opere abusive messe in essere nel tratto settentrionale della via Nomentana”. Quelle costruzioni non possono essere condonate, anzi vanno abbattute e si ipotizza il reato di cui agli artt. 733 e 734 del Codice Penale (danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale e distruzione o deturpamento di bellezze naturali).

Ma non succede un bel niente. Il centro commerciale continua la sua attività, fino a quando – siamo ormai nel XXI secolo - avviene una cosa veramente degna di ammirazione.

LA MOSSA DEL CAVALLO

Nel suo romanzo storico “La mossa del cavallo”, Andrea Camilleri narra le vicende di Giovanni Bovara, un funzionario genovese di origine siciliana inviato dai “piemontesi” in Sicilia per imporre il rispetto della legge sui mulini, quella della famigerata “tassa sul macinato”. Individuato nella campagna un enorme mulino che macina illegalmente, Bovara invia i reali carabinieri per eseguirne il sequestro. Arrivati sul posto, i carabinieri constatano che non vi è alcun mulino, bensì un nudo terreno che alcuni contadini stanno arando e seminando. La mafia aveva provveduto a far smontare pezzo per pezzo il mulino, e il povero Bovara venne fatto passare per matto.

Un bel mattino, chi si recava per fare acquisti al centro commerciale di Via Nomentana, invece dei negozi e dei capannoni, si è trovato davanti la stessa scena dei reali carabinieri del povero Bovara, con la sola differenza che nessuno stava arando o seminando la spianata deserta dove sorgeva il centro commerciale. Ma cosa è successo? Come e perché sono spariti nel nulla migliaia di metri quadri di manufatti, per i quali, però, è tuttora pendente una richiesta di condono? Qualcuno parla di un incendio, ma i conti non tornano: quell’incendio, che avrebbe illuminato la notte nel raggio di chilometri, non lo ha visto nessuno. In un tale incendio, inoltre, insieme alle strutture sarebbe andata distrutta merce per milioni di euro: possibile che nessuno abbia visto gli autocarri che portavano via le tonnellate di rottami? E dove è stata smaltita tutta questa roba? Infine, last but not least, non si ha notizia di alcun intervento dei Vigili del Fuoco. Ancora oggi, chi vada a guardare con i suoi occhi non vedrà altro che un terreno abbandonato, malamente recintato, senza la minima traccia di bruciature.

E’ un mistero che non sembra appassionare nessuno, nemmeno i residenti della zona: c’è chi afferma di aver assistito ad un frettoloso ma ordinato smantellamento delle strutture e chi, semplicemente, allarga le braccia ed alza gli occhi verso il cielo. Sembra proprio una storia da Sicilia del XIX secolo o, se preferite, da America Latina. Ed è proprio l’America Latina il vecchio amore degli amici dei fidanzati della morte che popolano gli strati alti della torta di Alemanno.

http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Gennaio11/10-01-11ForchettoniNeri3.htm

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(quarta puntata)
di Caio Gregorio

Mentre la rabbia degli studenti invadeva le strade del centro di Roma, il Ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, barricata nel bunker del governo, annunciava giubilante la liquidazione dell’eredità del 1968, con il suo portato rivoluzionario di libertà ed uguaglianza. Grazie all’operato del governo Berlusconi, i potenti si sono presi tutte le rivincite che sognavano da decenni contro le utopie ed i cattivi maestri della sovversione: adesso, finalmente, gli operai la smetteranno con quella storia assurda di volere il figlio dottore.
Verso la metà degli anni 70, c’era già chi lavorava alacremente per contrastare il diffondersi nella società italiana di quelle utopie eversive, per mettere a tacere le voci che parlavano di diritto allo studio per tutti, di potere agli operai, di emancipazione delle donne. In tutte le città, manipoli di baldi giovani con gli occhiali a specchio, i capelli cortissimi e improbabili scarpe a punta lavoravano alacremente di spranga e di rivoltella per ricondurre alla ragione capelloni e comunisti. Qualcuno, più specializzato, si dedicava al bombardamento di banche, di treni e di piazze affollate da troppi lavoratori sindacalizzati.
Fra quei simpatici giovanotti di buona famiglia, dediti anche allo stupro a tempo perso, furoreggiavano slogan come l’esplicito “Cile-Cile-Argentina, l’Italia come l’America Latina” o il sobrio “Auschwitz-Mathausen-Buchenvald sono le tappe della civiltà”. Il più gettonato, comunque, era il ritmico “Il comunismo non passerà”, il tutto accompagnato da quel curioso saluto a braccio e mano tesi che, notava il cantautore Fausto Amodei, ricordava la silenziosa richiesta dei bambini alla maestra di poter andare al cesso.
A Roma, di quei giovanotti ce n’erano parecchi: risiedevano principalmente nei quartieri alti (Parioli, Prati, Piazza Bologna, EUR, Vigna Clara, Balduina) ma anche in zone piccolo borghesi o popolari (Prenestino, Primavalle, Tiburtino), dove, però, non se la passavano molto bene. Oltre ai già citati occhiali a specchio e scarpe a punta, loro tratti distintivi erano, in inverno, il cappotto “loden” rigorosamente verde e, in estate, le magliette Lacoste, quelle con il marchio del coccodrillo. Per gli spostamenti, erano d’obbligo il “vespone” bianco, che sembrava uno scaldabagno con le ruote, o il “Maggiolone” nero, che faceva tanto Terzo Reich. Letture, pochine: un po’ di Evola e Pound, qualcosa di Cèline e Drieu La Rochelle, Tolkien neanche tanto, il Mein Kampf, qualche libretto pseudo esoterico, insomma più moschetto che libro. Attività preferita: la caccia al “rosso”, altrimenti detto “compagno”, “peloso”, “bolscevo” o “zecca”, caccia i cui terreni erano le scuole superiori, perché all’Università non era proprio aria. Armi in dotazione: bastoni, spranghe, tirapugni, catene ed anche pistole, tanto le forze dell’ordine chiudevano sempre un occhio di fronte a quella jeunesse dorèe così impegnata nel salvare l’Italia dalla montante marea rossa.
Naturalmente, in quell’ambiente guerriero emergevano i più coraggiosi, anzi i più arditi, quelli che gettavano il cuore oltre l’ostacolo e, dopo aver pestato ben bene in quindici un ragazzino con i capelli troppo lunghi, abbordavano le ragazze di periferia, le caricavano nelle loro belle macchine e le violentavano, in nome della naturale supremazia del superuomo.
Esaltavano la bella morte, ma si godevano la bella vita, i camerati romani, ignorati (se non protetti) dalla polizia e trattati benevolmente dai magistrati. Del resto, difendevano i privilegi della loro classe dalla minaccia comunista, per cui era naturale che la loro classe avesse per loro un occhio di riguardo.
In quegli anni si cementano virili amicizie, legami imperituri, così imperituri che resistono anche quando le cose cambiano e qualcuno, come si dice a Roma, perde la brocca. Successe che a Roma la sinistra rivoluzionaria si stancò di chiedere alla Repubblica democratica – nata sì dalla Resistenza, ma governata dai democristiani – di chiudere le sedi fasciste, e cominciò a chiuderle da sola, talvolta con i medesimi fascisti ancora all’interno. Come era avvenuto nei confronti dello Stato, il movimento infranse il monopolio fascista della violenza, e molti camerati se la videro brutta, anzi, bruttissima. Inoltre, qualche poliziotto e qualche magistrato presero sul serio il loro mestiere, e cominciarono ad indagare seriamente sulle attività di quei giovanotti esuberanti, scoprendo che – fra l’altro – qualcuno arrotondava la generosa paghetta con lo spaccio di eroina.
Dopo una fase di transizione, le strade si divisero: qualcuno continuò la sua guerra contro i “rossi” ed il “sistema”, altri scelsero un silenzioso rientro nei ranghi di famiglia. I primi intrapresero la strada della clandestinità, delle rapine, degli attentati e degli omicidi, i secondi quella dei consigli di amministrazione o delle segreterie di partito. Ma anche per questi ultimi l’antico cameratismo non finì in soffitta, insieme alle pistole ed ai tirapugni.
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Giuseppe Dimitri, detto Peppe, classe 1956, passa direttamente da boy scout a militante di Avanguardia Nazionale, che ha nel suo quartiere, l’EUR, una sua roccaforte. In breve tempo, Dimitri diventa una figura quasi mitica per i fascisti romani, in particolare per quelli della zona sud-ovest della Capitale, che avevano il loro punto di riferimento al “Fungo”, un lussuoso (ma bruttissimo) bar-ristorante, lo stesso frequentato dai boss della Banda della Magliana. Da Wikipedia: “Appassionato di tattica militare e di guerriglia urbana, allestì campi in boschi abbandonati o in montagne dai sentieri impervi, allo scopo di addestrare i giovani militanti alla lotta "corpo a corpo", temprarne la resistenza fisica e abituarli alla sopravvivenza in situazioni estreme. Insegnava anche l'uso di "armi bianche", come bastoni e soprattutto martelli”. La passione del camerata Peppe per i martelli non aveva nulla a che vedere con il bricolage: infarcito di mitologia nibelungica, si lanciava all’assalto dei giovani di sinistra gridando “Per Odino!” e brandendo quello che, anziché un banale utensile da ferramenta, considerava l’arma del dio Thor, signore dei tuoni e delle tempeste, nonché figlio dell’Odino di cui sopra.
Sciolta Avanguardia Nazionale, Dimitri, insieme a Roberto Fiore, Gabriele Adinolfi, Walter Spedicato ed altri, partecipa alla fondazione di Lotta Studentesca, che presto diventerà Terza Posizione. Il 15 marzo del 1979, Dimitri partecipa con camerati come Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Alessandro Alibrandi e Livio Lai alla rapina di un’armeria, impresa che verrà rivendicata dai NAR. Il 27 novembre dello stesso anno, il camerata Peppe organizza e mette in atto un’altra rapina, questa volta ai danni della filiale della Chase Manhattan Bank del suo quartiere, l’EUR; il bottino verrà affidato per il riciclaggio a Franco Giuseppucci, detto Er Fornaretto o Er Negro (il Libanese della fiction Romanzo Criminale), uno dei fondatori della Banda della Magliana, con cui Peppe è in ottimi rapporti. Alla fine di quell’anno, il 14 dicembre, Dimitri viene casualmente intercettato dalla polizia: entrerà in carcere, dove sarà raggiunto qualche mese dopo da un mandato di cattura relativo alla costituzione di Terza Posizione, insieme a Fiore ed Adinolfi. Uscirà dal carcere solo nel 1988.
Sbolliti i furori antisistema, nel 1994 il camerata Peppe si risciacqua a Fiuggi, aderisce ad Alleanza Nazionale e nel 2001 il suo vecchio amico Alemanno, diventato Ministro per le Politiche Agricole del secondo governo Berlusconi, nonostante il passato di terrorista e le aderenze con la Banda della Magliana, arruola Dimitri come consulente al suo Ministero, carica che ricoprirà fino al 2006, quando un banale incidente stradale metterà improvvisamente fine alla sua vita movimentata. A pochi anni di distanza, lo stesso Alemanno, ora sindaco di Roma, griderà allo scandalo per il rifiuto del Brasile di estradare in Italia Cesare Battisti, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo. Dunque, se un terrorista è “rosso” deve marcire in galera anche a trentadue anni di distanza dai fatti che lo riguardano; se, invece, il terrorista è “nero” ed amico di Alemanno, lo assumiamo in un Ministero. Mistica fascista, evidentemente.
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Seguace ed emulo delle gesta del camerata Peppe, un personaggio divenuto presto tristemente noto nella zona di Roma esattamente al capo opposto della città, rispetto a quell’EUR dove erano cresciuti ed avevano prosperato i camerati di Avanguardia Nazionale ed i gangster della Banda della Magliana.
Fabrizio Mottironi, non ancora ventenne, alla fine degli anni 70 è il leader assoluto dei giovani di Terza Posizione inquadrati nel Comitato Rivoluzionario Quartiere Trieste (CRQT). Una vaga somiglianza con Alex, il protagonista del film Arancia Meccanica, contribuisce ad alimentare il mito violento del giovane, sempre in prima fila negli scontri con i simpatizzanti di sinistra. I “bolscevi” del liceo Giulio Cesare sono gli obiettivi preferiti degli assalti del CRQT: nel 1979, le aggressioni erano quotidiane, sia davanti la scuola che nelle vie del quartiere. Fabrizio/Alex aveva il vezzo di impartire severe punizioni ai camerati che commettevano qualche errore: la più usata era l’ordine di eseguire un certo numero di flessioni a terra, scena ripetutasi decine di volte nel piccolo giardino di fronte al Giulio Cesare dove stazionavano abitualmente i militanti del CRQT.
E’ di quel periodo la storia di un attentato ai danni della FLM, l’allora sindacato unitario dei metalmeccanici, la cui sede nazionale si trovava a poche centinaia di metri dal Giulio Cesare: si racconta che, mentre era in corso una riunione sindacale, un giovanotto si affacciò dalla finestra aperta e lanciò nella stanza un candelotto di dinamite con la miccia accesa. Non fu una strage solo perché un sindacalista ebbe la presenza di spirito di staccare la miccia, ed all’epoca c’era chi giurava che il giovanotto affacciatosi alla finestra assomigliasse maledettamente all’Alex di Arancia Meccanica. E’ una storia difficile da verificare, ma sono in tanti ad averla sentita.
Come era inevitabile, le violenze di strada dei fascisti del CRQT finirono per provocare la reazione degli attivisti di sinistra: per alcuni giorni, massicce “ronde proletarie” spazzarono le strade intorno al Giulio Cesare, ed almeno in un’occasione il giovane Mottironi ed i suoi camerati si salvarono soltanto grazie all’intervento della polizia, che andò a prenderli con i blindati nel portone del palazzo in cui si erano asserragliati, circondati da centinaia di “bolscevi”. Da quel momento, l’attività del CRQT andò scemando, anche a causa del passaggio ai neonati Nuclei Armati Rivoluzionari di molti dei militanti di Terza Posizione. Il nome di Mottironi finisce sui giornali nel settembre del 1980, quando viene arrestato, con altre quattordici persone: resterà in carcere per cinque anni, ma al processo verrà assolto.
Nel 2003, il Ministero delle Politiche Agricole retto da Alemanno crea una società privata per promuovere i cibi italiani nel mondo, la Buonitalia S.p.A., e vi pone a capo Fabrizio Mottironi, che non proclama “Spezzeremo le reni alla Grecia!”, ma un più amatriciano “Invaderemo di pasta le Americhe!”». Il tempo passa per tutti, anche per i vecchi nazional-rivoluzionari, che vanno trasfigurandosi negli odiati democristiani di una volta: infatti, Buonitalia – arrivata a costare la bellezza di novanta milioni di euro dei contribuenti – ospiterà nei suoi uffici di Via del Tritone una ventina di uomini chiamati senza selezione da Gianni Alemanno, tutti di provata fede cameratesca, fra i quali Manfredi Minutelli, ufficiale parà della Folgore, direttore del sito "destrasociale.org", che diventa direttore del marketing.
L’aspetto forse più incredibile della vicenda è che Buonitalia è sopravvissuta non solo per tutta la durata del secondo governo Berlusconi, ma anche durante i due anni del governo Prodi sostenuto dai “comunisti” Bertinotti e Diliberto, e solo oggi il ministro (di centrodestra!) in carica, l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan, sta tentando di liquidare la dispendiosa ed inutile struttura, osservando che “Ci sono già una direzione generale e due divisioni che si occupano di valorizzazione dei prodotti agroalimentari italiani”.
Insomma, il ministro Gelmini ha ragione: tolta di mezzo l’eredità del ‘68, niente più figli dottori per gli operai, ma tanti figli della lupa a spartirsi la torta.
…..Arrivederci alla quinta puntata
CG

http://www.contropiano.org/Documenti/2011/Gennaio11/17-01-11ForchettoniNeri4.htm

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