lunedì 12 luglio 2010

«Gli Usa vogliono che la guerra dei narcos non si combatta nei loro confini»

Paco Ignacio Taibo II Tra i maggiori scrittori messicani. "Un hombre guapo" è il ultimo libro.

«La domanda che crea il mercato per i narcotrafficanti nasce negli Stati Uniti, ma la guerra sanguinosa per combatterli si combatte in Messico: qualcosa non torna in tutto questo». Paco Ignacio Taibo II è uno dei maggiori scrittori messicani, nato a Gijon, in Spagna, nel 1949, vive da sempre a Città del Messico. Ha pubblicato oltre cinquanta libri tra noir e romanzi storici. Tra i suoi titoli, nel nostro paese editi da Tropea, ricordiamo Sentendo che il campo di battaglia , Te li do io i Tropici , Vita e morte di Ernesto Che Guevara , Giorni di battaglia e Il fantasma di Zapata . Il suo ultimo romanzo, Un hombre guapo , traduzione di Pino Cacucci, uscito recentemente per Tropea (pag. 320, pp. 19,50), ripercorre la vicenda di Tony Guiteras, «padre della rivoluzione cubana del 1933», protagonista dimenticato della storia della sinistra latinoamericana. Lo abbiamo intervistato in occasione della rassegna "Cominciamo da Perugia".

Lei ha raccontato gli eroi della rivoluzione come Pancho Villa. Oggi si ha l'impressione che i protagonisti della cultura popolare del Messico siano quelli cantati nei narcocorridos. Cosa ne pensa?
Non esageriamo. Diciamo che si tratta di un fenomeno diffuso e popolare ma solo in una parte del Messico che è oggi un paese impazzito che produce ogni genere di delirio e di pazzia. Certo nelle zone dove il narcotraffico è molto diffuso è facile che si abbia l'impressione che i narcos siano un po' dei "banditi generosi", altrettanti Robin Hood alla messicana. Ma, appunto, si tratta di una sensazione che in più riguarda solo le zone del nord del paese dove più forte è la pressione dei trafficanti e dei loro interessi.

Insieme ad altri scrittori messicani lei ha messo l'accento sulle responsabilità del governo nel deteriorarsi della situazione, perché?
Fino ad ora ci sono stati 22mila morti in Messico, numeri che fanno pensare alla guerra dell'Iraq. Le bande dei narcos sono capaci di qualunque violenza: sequestri di persona, torture, stupri. Hanno perfino lanciate delle granate in un luogo dove si stava svolgendo un festa popolare. Questo da un lato, mentre dall'altro le maggiori città del nord del paese vivono ormai in stato d'assedio e una parte della frontiera con gli Stati Uniti è completamente militarizzata. E sono centinaia le segnalazioni di violazioni dei diritti umani perpetrate da soldati e poliziotti. Il governo messicano guidato da Felipe Calderon ha perciò portato il paese dentro a un vero e proprio conflitto armato senza alcun ragionamento o strategia. Inoltre, come affrontare una guerra con un esercito e un sistema politico corrotto, e permeabile, quando non complice dei narcos, come sono quelli del Messico? Credo che l'opinione pubblica internazionale dovrebeb cominciare a capire come vanno davvero le cose nel mio paese.

Quale ruolo giocano in questa vicenda gli Stati Uniti, che hanno inviato uomini e mezzi a sostegno dell'offensiva militare lanciata da Calderon?
Intanto devo chiarire una cosa: affermare - come faccio io e molti come me in Messico - che la guerra in corso nel nord del paese è assurda, non significa certo stare dalla parte dei narcotrafficanti o difenderne gli interessi. Al contrario, il problema è però capire se questa escalation militare serve o meno a risolvere il problema. Il governo del distretto di Città del Messico, che si è differenziato in questo da quello nazionale, ha affrontato in tutt'altro modo la questione dei narcos, ha lavorato sia sulla repressione che sull'affrontare i problemi sociali che stanno alla base del "successo" dei narcos. E così nella capitale non si è assistito a quella spirale di violenza e di orrore cui si assiste invece al nord. Queste considerazioni sono legate strettamente al ruolo giocato dagli Usa. Mi spiego. Il mercato a cui si rivolgono soprattutto le attività dei narcos è quello degli Usa: è verso le grandi città americane che si indirizza la droga prodotta dai trafficanti in Messico. Ebbene, gli americani potrebbero affrontare in patria la questione del narcotraffico ma questa è esattamente la loro paura, perciò sostengono con ogni mezzo la campagna militare di Calderon, non importa al prezzo di quanti morti e di quante sofferenze, purché tutto ciò avvenga al di fuori dei loro confini.

In "Un rivoluzionario chiamato Pancho" lei ha raccontato la vita avvenuturosa di uno degli eroi della Rivoluzione messicana (1910/17). Ma nel paese quanto è forte la memoria di questi eventi?
Diciamo che sia rispetto alle celebrazioni della rivoluzione che all'anniversario dell'indipendenza dalla Spagna del 1810, emergono due atteggiamenti nel paese: c'è l'interesse piuttosto superficiale dimostrato dalle istituzioni e poi c'è una sorta di movimento culturale nato tra gli scrittori e gli universitari che guarda invece a quel passato per leggere la realtà del Messico di oggi, soprattutto per cogliere il protagonismo popolare che caratterizzò quella stagione della nostra storia.

Anche il suo ultimo libro, "Un hombre guapo", è dedicato alla figura di un rivoluzionario, quella di Tony Guiteras, tra gli ispiratori della rivoluzione cubana del 1933. Che cosa ha amato in questo personaggio?
Mi ha colpito molto il fatto che malgrado sia stato uno dei grandi rivoluzionari degli anni Venti e Trenta, un eroe romantico che ha lottato per la libertà dell'America Latina, sia stato praticamente dimenticato da tutti. Una figura paragonabile a quelle di Pancho Villa e di Che Guevara di cui mi sono già occupato ma con una particolarità politica: si trattava di un socialdemocratico, ma libertario, qualcosa di davvero originale nel panorama della sinistra ispanoamericana.
Gu. Ca.

Liberazione 20/06/2010, pag 16

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