lunedì 12 luglio 2010

Tra famiglie e distretti. Com'è vecchio, anzi nuovo il capitalismo italiano

L'anatomia della borghesia nazionale in un volume collettivo a cura di F. Barca

Tonino Bucci
Nei primi anni della Repubblica l'Italia aveva nove milioni di persone occupate nell'agricoltura. Il 37 per cento della popolazione, un'enormità se paragonata alle percentuali degli altri paesi sviluppati. La Francia ne aveva il 28, la Germania il 22, gli Usa soltanto il 13. Le industrie italiane erano concentrate soprattutto nel triangolo del nord-ovest tra Milano, Torino e Genova. Per il resto, un deserto, fatta eccezione per piccoli distretti (nel Meridione, per esempio) legati ad attività semiartigianali. Era soltanto l'altro ieri, storicamente parlando. Fin dalle origini il capitalismo made in Italy non ha mai smesso di portarsi sulle spalle l'etichetta di un capitalismo male in arnese, uso a vivacchiare sulle commesse di Stato. Un capitalismo anomalo, s'è detto e scritto tante volte, cresciuto più all'ombra delle sovvenzioni pubbliche, che in forza di un ceto imprenditoriale degno di questo nome. Quasi un capitalismo senza borghesia , senza una classe dirigente che avesse un profilo nazionale, l'unica - o quasi - fra le borghesie europee, ad essere arrivata allo Stato unitario senza una rottura rivoluzionaria - tanto che ancora oggi, a centocinquanta anni dall'unità d'Italia, si discute ancora dei limiti e del fallimento del Risorgimento.
Fin dalle prime battute dello Stato unitario il capitalismo italiano si muove sotto il segno di interessi economici conservatori. I settori maturi dell'epoca (grano e siderurgia a ciclo parziale, cioè con impiego di rottami) s'impongono sul più innovativo settore della meccanica grazie a un regime di monopolio e tariffe decretate per legge. Tra scandali e crac non riesce neppure a prendere piede un sistema finanziario in grado di sostenere lo sviluppo economico. Tra le banche e le industrie, anzi, c'è commistione e spesso i dirigenti a capo delle une sono legati da clientelismi ai dirigenti delle seconde. «L'industrializzazione dell'Italia aveva risentito dell'assenza sia di una rottura rivoluzionaria, sia di una radicata "fede nel nuovo" - la convinzione di trovarsi alle soglie di un grande salto - che fossero capaci di accelerare l'emersione di una borghesia nazionale imprenditrice». L'autore del giudizio è Fabrizio Barca, dirigente al Ministero dell'economia e delle finanze, già responsabile di ricerca nel Servizio studi della Banca d'Italia, e ora curatore di un volume collettivo da poco pubblicato per Donzelli, Storia del capitalismo italiano (pp. 634, euro 19). Eppure, con qualche scarto rispetto a quanto scritto sin qui, i saggi raccolti nel libro non sono un lavoro a tesi. Nel senso che la Storia curata da Barca non è la riedizione in versione aggiornata della vecchia tesi del capitalismo italiano arretrato, in ritardo storico sugli altri capitalismi nazionali. Perché se è vero che rimangono sul tappeto tutte le tare e le arretratezze del nostro sistema industriale - la debolezza della borghesia imprenditrice, l'anomalia di un capitalismo nato sotto l'ombrello dei grand commis di Stato, assetti di potere disegnati a misura delle grandi famiglie e dei grandi gruppi - è vero anche che il capitalismo italiano nasconde un volto ipermoderno, intrecciato alle anomalie nazionali quanto si vuole, ma comunque integrato nei mercati globalizzati e proteso all'esportazione del made in Italy .
Il lavoro collettivo di Barca e compagni è semmai una lettura sbilanciata più sui caratteri innovativi del capitalismo italiano, persino azzardata, almeno fino al punto da scommettere su una transizione del nostro sistema industriale e finanziario verso un qualche futuro senza anomalie. C'è un limite, però: l'impianto analitico di gran parte dei saggi si arresta a un attimo prima della crisi. Non è un dettaglio di poco conto.
La principale delle tesi che, sul piano più strettamente storico, apre il volume, è che il capitalismo italiano sia il risultato di un «compromesso senza riforme», di un assetto frutto di mediazioni ma non rispondente a nessuna linea di pensiero univoca. «Il modello non appare né statalista, né iperliberista», la definizione più adatta sarebbe quella di «compromesso straordinario» tra concezioni diverse: da un lato, si affida agli enti pubblici - sull'esempio dell'Iri - e non al mercato un ruolo nella programmazione dello sviluppo, ma dall'altro il miracolo economico si costruisce su un regime di bassi salari e di sussidi destinati esclusivamente al ceto medio.
La seconda questione rilevante è quella del potere . Chi comanda? Quali sono le catene di comando all'interno dei principali gruppi italiani? «Uno dei tratti peculiari del capitalismo italiano - scrivono Fabrizio Barca, Francesca Bertucci, Graziella Capello e Paola Casavola in un saggio sui casi di Fiat, Pirelli e Falck - è l'organizzazione in gruppi piramidali: strutture organizzative dove imprese giuridicamente autonome sono legate da relazioni di controllo che si dipartono, a cascata, da un vertice comune e che tendono a oscurare la vera natura degli assetti proprietari e di controllo». Alle spalle di questa dissimulazione delle gerarchie di potere, si cela un paese - stando a dati degli anni 90 - in cui tre quarti di tutte le imprese industriali con oltre 50 occupati appartengono a un gruppo. «In circa 180 gruppi si addensano le circa 250 società quotate e le loro consociate non quotate, per un totale di circa 6500 imprese, di cui oltre 4000 italiane». Ma l'immagine di un capitalismo delle famiglie, immobile e statico, sarebbe fuori luogo. Se si seguono le vicende di gruppi come la Fiat o la Pirelli o la Falck si nota che le catene di controllo si allungano. Nel caso della Fiat il numero dei «livelli» passa dal '47 al '93 da 6 a 10. Molte famiglie per tradizione dotate di grandi patrimoni sono nel frattempo uscite di scena, «a favore di un gruppo più ristretto di famiglie imprenditrici e di un pubblico più diffuso di azionisti». I vecchi clan hanno sempre più bisogno della copertura di «partners bancari e assicurativi». Immaginarsi un capitalismo in cui i proprietari dei gruppi siano al tempo stesso anche coloro che li controllano a proprio piacimento è ormai un'immagine anacronistica. La proprietà e il controllo non coincidono più. «Sembra prevalere oggi un assetto di controllo tripolare fondato sulla famiglia fondatrice, sul management e su società bancarie e di assicurazione. L'esercizio della gestione si attua attraverso un accordo fra i leader espressi da queste tre parti».
Ma è nel caso dei «distretti industriali» che emerge un altro volto del capitalismo italiano, quello delle piccole e medie imprese. Un fenomeno dal profilo incerto, che può assumere - a seconda delle letture - ora le sembianze del made in Italy dinamico, ipermoderno e iperintegrato nella globalizzazione, ora invece quelle del padroncino leghista, di un ibrido a metà strada tra l'imprenditore e l'operaio che si mette in proprio. Non a caso, l'Italia dei distretti industriali comincia a essere studiata con ritardo. L'aspetto comunitario è l'ingrediente fondamentale di un modello d'impresa su piccola scala, fondato in gran parte su legami protofamiliari tra imprenditore e operai - ruoli a volte interscambiabili. «Il distretto industriale è una comunità di persone e di imprese che opera su un territorio limitato» nei confini del quale si sviluppa «un apparato produttivo specializzato», che sia quello del mobile o del tessile o della meccanica di precisione. Nel 1951 i distretti caratterizzati da imprese con meno di cento lavoratori erano 149, per un numero complessivo di occupati pari a 360 mila. Quarant'anni dopo, nel 1991, il numero dei distretti sale a 238, con quasi un milione e settecentomila occupati. Si addensano, come noto, soprattutto nel Nord-est, in Lombardia e nel Centro, specie lungo la fascia adriatica. La quota dell'occupazione è triplicata per importanza: dal 10 per cento del 1951 al 32 per cento della popolazione lavorativa nel '91. A dominare sono i settori dell'abbigliamento e calzature, seguono quello dei mobili e della pelle. Eppure, l'opinione diffusa secondo cui i distretti prosperano nei settori tradizionali e a basso livello tecnologico non sempre corrisponde al vero, come dimostra l'esistenza di alcune nicchie, dalla meccanica di precisione agli strumenti ottici e agli apparecchi medicali. bassi salari e retribuzioni più alte della media. «Sembra, in certi casi, che i distretti vengano percepiti quasi come un accrocco all'italiana, del quale vergognarsi un poco, perché il parlarne conferma la deprecabile immagine di un'Italia fatta di mandolini, pizza, arte di arrangiarsi e improvvisazione». Dalla demonizzazione all'esaltazione ce ne passa però. La realtà rimanda un'immagine più variegata, nella quale trova posto il padroncino che inneggia alla secessione fiscale della Lega e il piccolo imprenditore che inventa il prototipo di un macchinario o una miscela competitiva di lane e nylon. C'è la piccola impresa che prospera sui bassi salari di giovani alla prima esperienza di lavoro e quella che invece assicura retribuzioni superiori alla media per operai specializzati, pronti un domani a mettersi in proprio. Cosa sarà dopo la crisi è da vedersi.

Liberazione 27/06/2010, pag 9

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