La fine della monarchia e della guerra in un libro di Leopoldo Tartaglia
Vittorio Bonanni
Maoismo, comunismo, marxismo leninismo e chi più ne ha più ne metta. Queste parole in Occidente e comunque nella vulgata postnovecentesca evocano solo passati bui, dittature sanguinarie e totalitarismo. Se a questi sostantivi aggiungiamo poi anche quello di "guerriglia" sono in molti a farsi il segno della croce, anche se in Italia, appunto, la guerra partigiana ha giocato un ruolo importante nella costruzione della nostra democrazia. Ma tant'è, questo passa il convento con l'ausilio di una pessima e strumentale storiografia. Per fortuna, come si sa, il mondo però è molto vario e tutti questi termini che abbiamo voluto ricordare in Nepal vogliono invece dire tante altre cose o quanto meno stanno ad indicare realtà più articolate e complesse e non soltanto riconducibili a scenari apocalittici. Sì, proprio in Nepal, in quel piccolo paese di montagna schiacciato tra Cina e India, grande all'incirca la metà dell'Italia e famoso soprattutto per avere nel proprio territorio i monti più alti del mondo, quella catena dell'Himalaya che attira tantissimi turisti, amanti del trekking, scalatori e via dicendo. Un Paese però che ha conosciuto una monarchia sanguinaria, una guerra interna non meno cruenta e che finalmente è riuscito ad arrivare alla repubblica, alla pace, alla democrazia, sia pure in un contesto ancora pieno di contraddizioni e tensioni e soprattutto di grandi disuguaglianze sociali. Tutte queste cose le racconta con efficacia e sintesi Leopoldo Tartaglia nel suo ultimo libro Bandiere rosse sul tetto del mondo (Ediesse, pp. 119, euro 8,00). Impegnato presso il Dipartimento internazionale della Cgil nelle relazioni con i sindacati e le organizzazioni dei paesi asiatici e con la stessa Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), Tartaglia ha voluto approfittare di un suo recente viaggio in Nepal, nell'aprile del 2009, in occasione del congresso del sindacato Gefont, per realizzare un'analisi attenta sulla difficile situazione sociale e politica del piccolo paese asiatico e anche una sorta di guida quasi obbligatoria per chi decida di recarsi da turista consapevole a percorrere i sentieri d'alta quota o ammirare le bellezze di Durbar Square a Katmandu. Uno dei pochi lavori in italiano su questo lontano paese, il libro di Tartaglia ha il merito di raccontare i perché della nascita di una guerriglia così forte e determinata come quella maoista e i perché del venir meno della credibilità di una monarchia anacronistica, feudale, ingiusta e che ha conosciuto il momento più basso della sua popolarità il 1° giugno del 2001 quando Re Birendra, la regina Aishwarya e altri membri della casa reale vengono massacrati nell'ambito di una vera e propria resa dei conti interna. Il colpevole viene individuato nel principe ereditario Dipendra che resta però ferito nell'ambito della strage e muore pochi giorni dopo lasciando il trono a suo fratello Gyanendra. Quegli anni di inizio millennio sono i più duri, i più cruenti. I maoisti, che avevano iniziato la "guerra popolare" il 13 febbraio 1996, cercando di «liberare quanto più territorio possibile - come scrive Tartaglia - e instaurare forme di controllo militare e politico amministrativo», scatenano proprio i mesi e gli anni successivi alla strage perpetrata dai i reali una vera e propria offensiva fatta di scontri armati, scioperi, moti di protesta, tregue dichiarate e poi ritirate, fino a quando il 1° febbraio del 2005 il re destituisce il primo ministro Deuba, del Partito del Congresso, scioglie il parlamento e assume direttamente il potere esecutivo. Questa mossa sarà decisiva ai fini della nascita di un vero e proprio arco costituzionale che comprende anche i maoisti con il fine di mettere fine alla scredidata monarchia: «E' ancora Gyanendra, suo malgrado, ad aprire la strada alla possibile svolta nella situazione del paese - sottolinea l'autore di Bandiere rosse sul tetto del mondo - quando il primo febbraio del 2005, con un colpo di stato, sospende tutti i diritti costituzionali. (…). E' questa mossa del re ad indurre i partiti tradizionali nepalesi, (tra i quali anche il Partito comunista del Nepal ndr), ad aprire un rapporto con i maoisti, i quali accettano un dialogo che avevano rifiutato fino a pochi giorni prima.»
L'anno successivo è quello dell'accordo con il governo presieduto questa volta da un altro leader del Congresso, Koirala. Insieme, la guerriglia e i sette partiti che danno vita all'esecutivo, chiedono il 9 agosto l'aiuto delle Nazioni Unite per il controllo delle armi e il monitoraggio delle elezioni, che accettano creando un'apposita missione, la Unmin. Il fondamentale coinvolgimento nella dialettica democratica del Partito comunista maoista si deve anche alla lungimiranza di Pushpa Kamal Dahal, più noto come "Prachanda", un ex maestro di campagna che si definisce «marxista non dogmatico e democratico» ed ostile ad ogni forma di totalitarismo. Il leader maoista e il suo partito vincono clamorosamente le elezioni il 10 aprile del 2008, conquistando 220 dei 601 seggi dell'Assemblea Costituente. Il 28 maggio la stessa Assemblea si insedia e decide come primo atto la proclamazione della repubblica. Sarà Ram Barah Yadav, già leader del Partito del Congresso, il primo presidente nepalese, eletto con 308 voti su 590. Il 15 agosto Prachanda viene nominato primo ministro a capo di una coalizione ma la convivenza tra i tradizionali partiti nepalesi e i maosti non è destinata a durare a lungo. Il 4 maggio 2009, a seguito della controversa decisione di destituire il comandante supremo delle forze armate, respinta dal Capo dello Stato, il premier è costretto a dimettersi. Al suo posto viene eletto il 23 maggio Madhav Kumar Nepal, del Partito comunisita del Nepal, e i maoisti ritornano all'opposizione. Situazione a rischio dunque? Tanto lavoro per niente? Tartaglia non la pensa così: «...per quanto fragile e zoppicante, la nuova democrazia nepalese è incamminata su una strada senza ritorno. Nonostante la virulenza del confronto politico nessuno rimpiange la monarchia e sembra definitivamente scongiurata la ripresa di conflitti armati, anche se la violenza non è stata del tutto cancellata dalla scena». Insomma quello nepalese potrebbe essere un esempio da imitare per le ancora troppe situazioni di guerra che insanguinano il mondo. Lo dice Emanuele Giordana, direttore di Lettera 22 , autore della prefazione del libro. Il giornalista sottolinea il ruolo positivo giocato dall'India, potenza amica della guerriglia, che «con una discreta dose di lungimiranza politica e responsabile pragmatismo», ha favorito «una transizione tutto sommato pacifica che interrompeva il circolo vizioso della guerra e il degrado inevitabile che si compie nei regimi incarogniti e nei movimenti popolari che adottano la lotta armata». Una scelta insomma che ha spezzato quella terribile spirale di violenza-repressione-rappresaglia, presente, tanto per fare degli esempi, in Colombia piuttosto che in Afghanistan o nello Sri Lanka. Non ultimo un ruolo positivo lo ha giocato il sindacato Gefont. «Pur legato al Partito comunista unificato marxista leninista - dice Nicoletta Rocchi, responsabile internazionale della Cgil e curatrice della postfazione del volume - il Gefont ha una visione sufficientemente chiara dell'autonomia e del ruolo di un sindacato, certo in un paese il cui principale problema è oggi la costruzione di una realtà statuale democratica e improntata ai principi della giustizia sociale». Un'emergenza questa che non sembra essere solo prerogativa del Paese con le montagne più alte del mondo.
Liberazione 02/07/2010, pag 8
Vittorio Bonanni
Maoismo, comunismo, marxismo leninismo e chi più ne ha più ne metta. Queste parole in Occidente e comunque nella vulgata postnovecentesca evocano solo passati bui, dittature sanguinarie e totalitarismo. Se a questi sostantivi aggiungiamo poi anche quello di "guerriglia" sono in molti a farsi il segno della croce, anche se in Italia, appunto, la guerra partigiana ha giocato un ruolo importante nella costruzione della nostra democrazia. Ma tant'è, questo passa il convento con l'ausilio di una pessima e strumentale storiografia. Per fortuna, come si sa, il mondo però è molto vario e tutti questi termini che abbiamo voluto ricordare in Nepal vogliono invece dire tante altre cose o quanto meno stanno ad indicare realtà più articolate e complesse e non soltanto riconducibili a scenari apocalittici. Sì, proprio in Nepal, in quel piccolo paese di montagna schiacciato tra Cina e India, grande all'incirca la metà dell'Italia e famoso soprattutto per avere nel proprio territorio i monti più alti del mondo, quella catena dell'Himalaya che attira tantissimi turisti, amanti del trekking, scalatori e via dicendo. Un Paese però che ha conosciuto una monarchia sanguinaria, una guerra interna non meno cruenta e che finalmente è riuscito ad arrivare alla repubblica, alla pace, alla democrazia, sia pure in un contesto ancora pieno di contraddizioni e tensioni e soprattutto di grandi disuguaglianze sociali. Tutte queste cose le racconta con efficacia e sintesi Leopoldo Tartaglia nel suo ultimo libro Bandiere rosse sul tetto del mondo (Ediesse, pp. 119, euro 8,00). Impegnato presso il Dipartimento internazionale della Cgil nelle relazioni con i sindacati e le organizzazioni dei paesi asiatici e con la stessa Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), Tartaglia ha voluto approfittare di un suo recente viaggio in Nepal, nell'aprile del 2009, in occasione del congresso del sindacato Gefont, per realizzare un'analisi attenta sulla difficile situazione sociale e politica del piccolo paese asiatico e anche una sorta di guida quasi obbligatoria per chi decida di recarsi da turista consapevole a percorrere i sentieri d'alta quota o ammirare le bellezze di Durbar Square a Katmandu. Uno dei pochi lavori in italiano su questo lontano paese, il libro di Tartaglia ha il merito di raccontare i perché della nascita di una guerriglia così forte e determinata come quella maoista e i perché del venir meno della credibilità di una monarchia anacronistica, feudale, ingiusta e che ha conosciuto il momento più basso della sua popolarità il 1° giugno del 2001 quando Re Birendra, la regina Aishwarya e altri membri della casa reale vengono massacrati nell'ambito di una vera e propria resa dei conti interna. Il colpevole viene individuato nel principe ereditario Dipendra che resta però ferito nell'ambito della strage e muore pochi giorni dopo lasciando il trono a suo fratello Gyanendra. Quegli anni di inizio millennio sono i più duri, i più cruenti. I maoisti, che avevano iniziato la "guerra popolare" il 13 febbraio 1996, cercando di «liberare quanto più territorio possibile - come scrive Tartaglia - e instaurare forme di controllo militare e politico amministrativo», scatenano proprio i mesi e gli anni successivi alla strage perpetrata dai i reali una vera e propria offensiva fatta di scontri armati, scioperi, moti di protesta, tregue dichiarate e poi ritirate, fino a quando il 1° febbraio del 2005 il re destituisce il primo ministro Deuba, del Partito del Congresso, scioglie il parlamento e assume direttamente il potere esecutivo. Questa mossa sarà decisiva ai fini della nascita di un vero e proprio arco costituzionale che comprende anche i maoisti con il fine di mettere fine alla scredidata monarchia: «E' ancora Gyanendra, suo malgrado, ad aprire la strada alla possibile svolta nella situazione del paese - sottolinea l'autore di Bandiere rosse sul tetto del mondo - quando il primo febbraio del 2005, con un colpo di stato, sospende tutti i diritti costituzionali. (…). E' questa mossa del re ad indurre i partiti tradizionali nepalesi, (tra i quali anche il Partito comunista del Nepal ndr), ad aprire un rapporto con i maoisti, i quali accettano un dialogo che avevano rifiutato fino a pochi giorni prima.»
L'anno successivo è quello dell'accordo con il governo presieduto questa volta da un altro leader del Congresso, Koirala. Insieme, la guerriglia e i sette partiti che danno vita all'esecutivo, chiedono il 9 agosto l'aiuto delle Nazioni Unite per il controllo delle armi e il monitoraggio delle elezioni, che accettano creando un'apposita missione, la Unmin. Il fondamentale coinvolgimento nella dialettica democratica del Partito comunista maoista si deve anche alla lungimiranza di Pushpa Kamal Dahal, più noto come "Prachanda", un ex maestro di campagna che si definisce «marxista non dogmatico e democratico» ed ostile ad ogni forma di totalitarismo. Il leader maoista e il suo partito vincono clamorosamente le elezioni il 10 aprile del 2008, conquistando 220 dei 601 seggi dell'Assemblea Costituente. Il 28 maggio la stessa Assemblea si insedia e decide come primo atto la proclamazione della repubblica. Sarà Ram Barah Yadav, già leader del Partito del Congresso, il primo presidente nepalese, eletto con 308 voti su 590. Il 15 agosto Prachanda viene nominato primo ministro a capo di una coalizione ma la convivenza tra i tradizionali partiti nepalesi e i maosti non è destinata a durare a lungo. Il 4 maggio 2009, a seguito della controversa decisione di destituire il comandante supremo delle forze armate, respinta dal Capo dello Stato, il premier è costretto a dimettersi. Al suo posto viene eletto il 23 maggio Madhav Kumar Nepal, del Partito comunisita del Nepal, e i maoisti ritornano all'opposizione. Situazione a rischio dunque? Tanto lavoro per niente? Tartaglia non la pensa così: «...per quanto fragile e zoppicante, la nuova democrazia nepalese è incamminata su una strada senza ritorno. Nonostante la virulenza del confronto politico nessuno rimpiange la monarchia e sembra definitivamente scongiurata la ripresa di conflitti armati, anche se la violenza non è stata del tutto cancellata dalla scena». Insomma quello nepalese potrebbe essere un esempio da imitare per le ancora troppe situazioni di guerra che insanguinano il mondo. Lo dice Emanuele Giordana, direttore di Lettera 22 , autore della prefazione del libro. Il giornalista sottolinea il ruolo positivo giocato dall'India, potenza amica della guerriglia, che «con una discreta dose di lungimiranza politica e responsabile pragmatismo», ha favorito «una transizione tutto sommato pacifica che interrompeva il circolo vizioso della guerra e il degrado inevitabile che si compie nei regimi incarogniti e nei movimenti popolari che adottano la lotta armata». Una scelta insomma che ha spezzato quella terribile spirale di violenza-repressione-rappresaglia, presente, tanto per fare degli esempi, in Colombia piuttosto che in Afghanistan o nello Sri Lanka. Non ultimo un ruolo positivo lo ha giocato il sindacato Gefont. «Pur legato al Partito comunista unificato marxista leninista - dice Nicoletta Rocchi, responsabile internazionale della Cgil e curatrice della postfazione del volume - il Gefont ha una visione sufficientemente chiara dell'autonomia e del ruolo di un sindacato, certo in un paese il cui principale problema è oggi la costruzione di una realtà statuale democratica e improntata ai principi della giustizia sociale». Un'emergenza questa che non sembra essere solo prerogativa del Paese con le montagne più alte del mondo.
Liberazione 02/07/2010, pag 8
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