lunedì 12 luglio 2010

Vogliono multare l'editore. Perché controlli prima...

di Beppe Lopez
I pesanti limiti all'uso delle intercettazioni da parte della magistratura (immotivabili se non con una inequivocabile intenzione di aiutare i criminali a farla franca) e le pesanti, intimidatorie sanzioni previste per la stampa in materia di pubblicazione di notizie giudiziarie di cui riuscisse comunque a venire in possesso costituiscono indubbiamente un gravissimo attentato all'amministrazione della giustizia, al diritto dei cittadini di essere informati e complessivamente alla vita democratica del Paese.
Ma quello che più dovrebbe inquietare della cosiddetta "legge bavaglio" è un punto sul quale ci si è soffermati in questi giorni assai poco, diciamo quasi per niente, anche da parte del "giornalismo democratico" (guidato dalla Repubblica e dalla Fnsi), dagli editori, dall'opposizione parlamentare e dall'opposizione sociale. Ed è questo: se un giornale pubblicasse atti e intercettazioni non più pubblicabili, in base al controverso disegno di legge governativo, il suo editore rischierebbe una multa sino a 465 mila euro.
Non si tratta solo di una sanzione eccessiva. L'introduzione di questa sanzione, di per se, investe direttamente il ruolo degli editori di organi di informazione, e il delicato e complesso rapporto fra democrazia e mercato in questo delicatissimo settore, scardinando l'intero sistema contrattuale, normativo e legislativo (compresa la legge istitutiva dell'Ordine).
Almeno sul piano formale e normativo, mai era stato consentito in Italia che gli editori si occupassero del contenuto informativo dei "prodotti" da loro gestiti amministrativamente (e per la pubblicità), peraltro con un limite teoricamente invalicabile: il diritto del direttore del giornale, un giornalista, di dire l'ultima parola anche per le conseguenze delle scelte amministrative e persino per la pubblicità, essendo egli responsabile dell'organizzazione redazionale e di tutto quello che è comunque un "contenuto" del quale deve, per legge, anche penalmente rispondere.
Insomma, quando si fa il giornale e come quando si è in mare: sulla nave è il comandante che comanda. E' a terra che comanda l'armatore, il quale ha un solo modo per evitare che anche al successivo viaggio il comandante faccia di testa sua: licenziarlo. Per dirla fra gentiluomini: un buon editore, un vero editore è quello che legge il suo giornale una volta stampato e distribuito, non prima.
E' indubbio che negli ultimi decenni di imbarbarimento della vita economica e istituzionale nazionale - caratterizzati dal declino del ceto partitico e della sua riduzione a funzione subalterna degli interessi dei potentati economico-finanziari (ai quali fanno capo non a caso i più grossi gruppi editoriali editoriali e pubblicitari) - quella che era una netta distinzione fra editore da un canto e redazione dall'altro, fra gestione e contenuto dei giornali, nei fatti si è andata via via affievolendo, sino a scomparire del tutto. Oggi la gran parte dei direttori. che non hanno più il piacere della libertà dei vecchi marinai e temono come il Triangolo delle Bermude l'ipotesi del licenziamento, sono uomini di fiducia dei grandi imprenditori e finanzieri che controllano la proprietà delle testate, e si comportano come manager aziendali, come veri e propri "alter ego" dell'editore. Non più giornalisti che, un minuto dopo aver firmato il contratto con l'editore, sono "della" redazione, a capo della redazione, usando i poteri che attribuiscono loro le leggi e il contratto nazionale giornalistico a tutela e salvaguardia dell'autonomia della testata e del singolo redattore rispetto agli interessi e alle pretese dei "padroni" (in Italia caratterizzati peraltro dal non essere "editori puri", cioè dall'avere il proprio core business non nell'editoria ma nel cemento, nell'edilizia, nelle banche, nella finanza, nelle automobili, ecc.).
Questo è vero. Ma leggi, norme e contratti - non solo per forza inerziale ma per un complesso anche contraddittorio di resistenze e di tenuta "culturale" - sono rimaste più o meno quelle di una volta. E mai era stata sancita e data per acquisita, almeno sul piano formale (che è quello che è, ma in uno stato di diritto non è poco), la facoltà dell'editore di dire a un direttore cosa dovesse pubblicare e cosa no.
Ebbene, quella sanzione introdotta per gli editori è un punto della "legge bavaglio" - e indirettamente anche dell'azione di contrasto posta in essere contro di essa - sul quale si dovrebbe riflettere e discutere parecchio in forza della sua rilevanza, anche sul piano storico, per la nostra informazione e per la nostra democrazia, e che invece è rimasto sotto silenzio.
"Uno dei punti critici", si legge non a caso nelle schedine informative pubblicate dalla Repubblica , "è rappresentato dalle multe troppo elevate per gli editori contenute nelle norme". Per l'editore di Repubblica e per i suoi colleghi, la faccenda è chiara: con la nuova legge, Berlusconi - utilizzando gli "strumenti democratici" messigli in mano dal "consenso elettorale" contro il potere di formazione e deformazione dell'"opinione pubblica" da essi detenuti - li vuole punire e mettere sotto, colpendoli là dove sa che sono più sensibili, nel portafoglio.
Ma per gli altri, per i cittadini e i lettori, e per la stessa democrazia, come sta questo specifico aspetto della faccenda? Per andare al sodo: è più grave l'inasprimento delle pene per i giornalisti (sino a 30 giorni di carcere e a 10 mila euro di sanzione), giustamente messo al centro della battaglia sindacale e politica, o quel multone previsto per gli editori? E quest'ultimo è preoccupante, in definitiva, solo per le tasche dei Bazoli, dei De Benedetti e dei Caltagirone, che peraltro non mancano di liquidità?
In realtà, la sanzione per i giornalisti - inasprita nel ddl berlusconiano indebitamente, sia sul piano sostanziale sia su quello quantitativo - è in linea di principio giusta e logica: ogni giornalista e direttore deve assumersi la responsabilità di ciò che pubblica. Essi operano infatti in un punto cruciale di contrasto fra due diritti ugualmente importanti, quello individuale alla riservatezza e quello collettivo all'informazione. Paradossalmente, è proprio l'esistenza di una sanzione all'abuso di un diritto che sancisce l'esistenza e la legittimità dell'esercizio di tale diritto.
Perciò la novità della super-sanzione agli editori introduce un elemento di principio e pratico nel mondo dell'informazione e dell'editoria italiano che potrebbe risultare epocale. Nel senso che mette a nudo definitivamente - e consente di prendere atto lucidamente - delle potenti trasformazioni progressivamente consolidatesi nel settore (così come nella politica e nella finanza), dopo l'interruzione dei processi di democratizzazione e di modernizzazione avvenuta alla fine degli anni Settanta.
Il movimento dei Giornalisti Democratici, sulla spinta delle battaglie per i diritti sociali e civili - e agevolato dagli scricchiolii del vecchio sistema (scandali finanziari, tentativi di golpe, P2, Banco Ambrosiano, ecc.) - era riuscito ad imporre di fatto un sistema di relazioni editoriali che distingueva nettamente l'azienda dal prodotto e l'editore dal direttore, culturalmente concepito come "primus inter pares", anzi come titolare di un potere enorme (fissato dalla responsabilità penale, dal contratto nazionale di categoria e dai contratti individuali) da attribuire come risorsa e potere contrattuale all'intera categoria. Mitico il ricordo di un direttore imposto dall'editore al Messaggero e cacciato fisicamente dai redattori, quando tentò di insediarsi. Come peraltro l'ormai dimenticata "svolta" morale democratica al Corriere della Sera , dopo l'inquinamento piduista.
Certo, fu una breve stagione, ma lasciò segni profondi (che riemergono a tratti anche oggi) e sopravvisse per un po' nella pratica quotidiana, paradossalmente anche grazie ad alcune anomalie nazionali. In negativo, quelle relative alla storica contiguità (e subalternità) del giornalista italiano rispetto al potere, politico o finanziario, e ai privilegi corporativi ricevuti in contraccambio (l'Ordine professionale per un'attività da dipendenti, alti stipendi, biglietti ferroviari, ecc.). In positivo, a marcare una differenza fondamentale rispetto ad altri paesi occidentali (dove metteva radici sempre più salde e ramificava sempre più prepotentemente il mercato editoriale), qui non c'era "il giornale di Murdoch" ma "il giornale di Scalfari" e, sino a qualche tempo fa, persino "il giornale di Mieli". Il primo però, non a caso, poi venduto dallo stesso Scalfari al finanziere De Benedetti. E il secondo, non a caso, palleggiato negli ultimi anni tra Mieli e De Bortoli, sotto la regia sempre più attenta e invasiva del salotto bancario-finanziario milanese. Con una direzione, da ultimo, pesantemente condizionata dal patto Bazoli-Geronzi.
E' in questo quadro ampiamente sfilacciato e degradato che rischia di passare equivocamente sotto silenzio lo sfondamento dell'autonomia giornalistica surrettiziamente introdotto con la previsione formale di una sanzione all'editore per ciò che riguarda il contenuto informativo del giornale. Prima, ne rispondevano formalmente solo il direttore e l'autore dell'articolo, aiutati anche economicamente negli eventuali processi a proprio carico dall'editore, in base a convenzioni e accordi aziendali anch'essi recentemente messi in discussione. Quindi i giornalisti, se provvisti di schiena dritta, avevano la possibilità e il diritto di pretendere la propria piena autonomia. Se invece diventasse definitivamente legge dello Stato la "legge bavaglio", non sarebbe più così. Siccome pago anch'io per quell'articolo - avrebbe il diritto/dovere di dire l'editore al direttore e al giornalista - prima di pubblicarlo me lo dovete far vedere, e se non sono d'accordo non si pubblica…

Liberazione 06/07/2010, pag 12

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