giovedì 29 luglio 2010

Territorio? Una parola vuota. Ormai solo periferie anonime

Un emendamento alla manovra finanziaria dà via libera alla cementificazione senza bisogno di permessi

Battista Sangineto
Il nostro paese possiede un bene ineguagliabile che è rappresentato dall'enorme patrimonio culturale sedimentatosi per più di trenta secoli nel tessuto armonico delle nostre città antiche, dei nostri musei, delle chiese, delle grotte preistoriche, dei palazzi dei nostri centri storici incastonati nel paesaggio italiano.
Un paesaggio gentilmente umanizzato, una campagna ben coltivata rappresentano l'immagine, lo specchio, della ragione e come tale presuppongono, in coloro che vi lavorano, ne modificano e ne godono i frutti, un'intima partecipazione alla ragione universale, al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza. La devastazione di sempre più vaste porzioni del paesaggio italiano è la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che presuppongono la comprensione profonda di quanto circonda gli uomini. Gli italiani e, soprattutto, i loro governanti, con ogni evidenza, non s'ispirano più a questi antichi principi e modelli. Il paesaggio italiano, in specie quello del Mezzogiorno, inizia ad essere, ormai, un paesaggio senza memoria, privo di identità. Il paesaggio - che costituisce il tessuto connettivo, il supporto vivente dei beni edificati nel corso della nostra plurimillenaria storia e, quindi, elemento identitario indispensabile - è, purtroppo, irrimediabilmente perduto in larghissime aree del territorio nazionale.
Gli italiani appaiono, ormai, privi, nel complesso, di quell'elemento fondante della coscienza collettiva di un popolo che è rappresentato dalla memoria, quella memoria che permette di riconoscersi e di riconoscere. Assenza che fa delle regioni del nostro paese, regioni sempre più popolate da individui smemorati che, soprattutto nel Mezzogiorno, non abitano quasi più nei loro centri storici, che non restaurano le loro antiche case, ma preferiscono costruirne di nuove e che, quindi, non sono più educati alla continua, quotidiana frequentazione con la bellezza delle forme, con l'eleganza dell'architettura, con l'armonia degli spazi che si sono depositati, sul paesaggio, nel corso dei secoli. Il paesaggio, tutelato dall'art. 9 della Costituzione, è un bene pubblico che non può essere svenduto facendo inghiottire dal cemento dei privati il mare, le colline, i boschi, le montagne, i centri storici; non può essere privatizzato trasformando le nostre campagne e le nostre coste in una periferia anonima e spaesante di una inesistente città.
Incurante di tutto questo, il Senato ha approvato una manovra finanziaria che contiene un emendamento, proposto dal presidente della Commissione Azzollini (Pdl), l'art. 49 del ddl 2228, che prevede di declassare la d.i.a. (dichiarazione di inizio attività) in s.c.i.a ("segnalazione certificata di inizio attività"). Di fatto è un'autocertificazione a cura dell'impresa o di un tecnico di sua fiducia, che elude ogni successivo controllo riguardante le autorizzazioni paesaggistiche. In questo modo non solo si annulla il sistema vigente permettendo di edificare senza alcuna autorizzazione, lasciando alle pubbliche amministrazioni solo l'opzione di tentare un blocco dei lavori, purché entro 30 giorni o «in presenza di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l'ambiente, la salute», ma si dà, per sovrapprezzo, la stura ad ogni possibile abuso che non può essere controllato, prevenuto o represso dagli Enti preposti, come le Soprintendenze, che versano in condizioni di perenne difficoltà a causa di mancanza di personale e di mezzi.
Il governo di centrodestra non ha alcun rispetto dei beni culturali -come dimostra anche quell'emendamento, per fortuna bloccato, che voleva introdurre un condono per i reperti archeologici illegalmente posseduti -, ma è la classe dirigente politica e culturale in generale che, duole dirlo, non tiene nel dovuto conto l'eredità del passato se il ministro Nicolais dell'ultimo governo Prodi voleva introdurre, tel quel, il silenzio-assenso, per fortuna bocciato dall'opposizione di qualche intellettuale come Settis, sui beni paesaggistici nel 2006.
Lo spazio e, quindi, il paesaggio sono la sola dimensione capace di permanere, perché i luoghi, per millenni, sono cambiati più lentamente degli uomini che li hanno abitati. La stabilità dei luoghi, in altre parole, garantisce alle società un senso di perpetuità in grado di conservare l'identità. Con la scomparsa sempre più tumultuosa del paesaggio si scardina un fondamentale nesso psicologico di identità che ha fatto, e farà, ammalare gli italiani di quel disturbo che Ernesto De Martino chiamava "angoscia territoriale" che altro non è che il disagio, la vertigine, l'angoscia, appunto, di chi è sottratto ai propri punti di riferimento indigeni o, peggio, di intimo rifiuto estetico di questi ultimi. Il riconoscimento della bellezza è, per la psicoanalisi, la comprensione profonda della varietà e interdipendenza di ciò che ci circonda: affetti, legami parentali, oggetti, case, luoghi e, quindi, anche il paesaggio. L'incapacità di distinguerla è, dunque, una condizione patologica della psiche, quella individuale e quella collettiva e gli italiani, grazie a questo governo e a questa classe dirigente, diventeranno un popolo di individui smemorati che si aggirerà per le orrende periferie di un nulla.
docente di metodologia della ricerca archeologica all'Università della Calabria

Liberazione 21/07/2010, pag 8

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