Questi lunghi vent'anni del «giornale comunista»
Maria R. Calderoni
N ascemmo di sabato, era il 12 ottobre del 1991, giorno fortunato. Era nato il "N. zero" di Liberazione , l'organo - si proprio l'organo - il giornale ufficiale dell'appena nato Partito della Rifondazione comunista, sortito all'incanto dalle ceneri di Rimini, quando il Pci venne sepolto vivo e la Quercia Pds vide per la prima volta la luce. La presentazione del "N. zero" avvenne alla grande, tutta la leadership presente, Garavini-Cossutta-Libertini, e non mancò un non folto ma rappresentativo gruppo di giornalisti. Formato grande, caratteri neri, spoglio, elementare, "militante" dalla testa ai piedi. Editoriale debitamente firmato dal segretario nazionale Sergio Garavini, grande foto a tutta pagina e titolone adeguato: "Siamo il popolo della Costituzione"; a seguire, nelle pagine interne, reportage su "Cuba, l'intollerabile anomalia" e un fantastico "speciale" intitolato: "Comunisti, perché".
Eravamo nati, e Liberazione era stata un parto difficile. Partito di passioni - ancora prima di nascere Rifondazione fu percorsa da venti, soffi e correnti - anche l'idea stessa di giornale trascinò con sé, fin dal primo giorno, ardori, polemiche, spiriti. Ricordo discussioni interminabili, in comune e a tavoli "separati"; eravamo nuovi in tutto, niente redazione, niente giornalisti, niente esperti del ramo, nebbia folta su un probabile direttore (o meglio, in parecchi avevano ognuno una propria idea di direttore e girava una rosa di nomi che variava di giorno in giorno...), niente (o pochissimi) soldi, niente computer. «Sergio, Armando, io e San Francesco», fu il titolo di una intervista di Lucio Libertini che ebbe molta eco sulla stampa nazionale. Veri "avventurieri", Luciano Doddoli accettò di mettersi alla testa di quella inesistente redazione, tutta fatta di gente digiuna del mestiere, a cui bisognava insegnare l'abc. Fu un "tormento" anche la scelta del nome, ma alla fine - e non senza patemi, liti e peripezie - la scelta fu quella, Liberazione . Una bella testata, ben disegnata, il giusto tocco di rosso. E quel 12 ottobre Liberazione era proprio lì, in vera carta stampata. Fortemente voluta dal neo partito; in molti furono pronti a rimboccarsi le maniche. C'era molta energia intorno. Indimenticabile l'enorme Bandierone - tante, tantissime bandiere rosse cucite insieme - sollevato e portato per le vie di Roma fin sotto il teatro Brancaccio dove Rifondazione teneva il suo inizio.
Settimanale, 12 paginone. Il vero numero 1 esce il 26 ottobre 1991, era un sabato anche quello. E da allora non ha mai bucato un giorno, quella scommessa impossibile chiamata Liberazione . E' un numero quasi interamente dedicato alla celebrazione del partito che nasceva; c'è un paginone "glorioso", stile vecchia Unità, il titolo, sopra una foto gigante di folla e bandiere, è bello e intenso: "Giù le mani dalla nostra vita". E l'ampio servizio tutto in corsivo - "La ballata del 12 ottobre" - che apre lo speciale sulla manifestazione per le vie della capitale del partito appena nato, inizia così: «Come un corteo dei bei tempi andati»; e finisce così: «Siamo qui, siamo vivi. Comunisti, cos'è che non va?».
E' da subito un giornale forte. Di appartenenza. Povero, certo, nemmeno lontanamente paragonabile alla ricchezza, bellezza, enormità di pagine, di firme e di mezzi della "grande" stampa, delle testate altisonanti e potenti con cui non possiamo nemmeno sognarci di competere sul piano commerciale, editoriale e,tampoco, delle tirature. Ma siamo in campo, voce in controtendenza, autorevole, voce di un partito «che c'è», che raccoglie da subito un bel po' di voti e che da subito entra in parlamento. Liberazione è da subito nelle "mazzette" che contano.
Quei primi numeri del nostro giornale-lenzuolo, piccolo ma deciso, che ha già tante belle firme, Luciano Canfora, Lucio Magri, Paolo Volponi, Luciana Castellina, Raul Mordenti, Luigi Pestalozza, Aldo Garzia (e Lucio Manisco che già ci mandava pezzi su "Quell'ometto miliardario che fa tremare George Bush e Bill Clinton", cioé Ross Perot). E già avevamo belle fotografie (Piero Ravagli, Gabriella Mercadini, Tano D'Amico); e avevamo Vauro (quando Rifondazione lanciò la proposta di tassare più equamente le rendite finanziarie, fece epoca la sua vignetta che recitava "I comunisti mangiano i Bot"). La redazione imparava sul campo, la fatica era tanta, i lussi pochi anzi inesistenti, gli errori non mancavano: ma il giornale - il «nostro» giornale - non si è più fermato. Era "lui", un giornale strettamente di partito, il «giornale del partito», felice di esserlo. Da subito scapigliato, indisciplinato, creativo. Un giornale che esprime bene l'anima del momento, il calore della rivolta contro lo strappo di Rimini, il senso della nostra presenza ribelle. E' il 28 dicembre 1991 e la copertina di Liberazione è un vessillo rosso stilizzato con scritto sopra: "Non si ammaina la storia".
Partito-giornale, un legame stretto. Sempre, fin dai primissimi numeri, compaiono le firme dei dirigenti, Garavini, Cossutta, Libertini (che si firmava anche con due pseudonimi); e poi tanti altri, Russo Spena, Claudio Grassi, Franco Giordano; Bertinotti anche lui da subito come esponente di "Essere Sindacato"; e tanti altri, dal centro come dai territori, dalle federazioni e dai circoli. Nichi Vendola è anche lui presente fin dal primo numero, inaugura una rubrica che si chiama "abecedario" (la prima parola di cui dà la giusta "spiega", è "omologazione", e si capisce perché).
Un giornale molto amato e molto ambito, anche molto "guardato". Guardato da vicino, soppesato, palpato, "creatura" particolarmente preziosa. Niente agiografia. Fin dai primi momenti - sì fin dai primi giorni - Liberazione ha attirato molta passione, ed è stata un terreno di incontri e scontri palesi e non, di contese, contestazioni, dissensi. Di amori e odi, grandi. Un giornale di partito ma non pacifico, canonico. Nel quale si riflettono le tante anime di Rifondazione, ognuna con il suo appeal verso l'"organo". Comunista sempre, conformista mai, va bene; Liberazione dimostra validamente di essere dotata di vita propria. Anche se, ovviamente, il partito c'è e il giornale ne rispecchia vita e miracoli, fasi e svolte, chi sale e chi scende dentro le mutevoli geometrie interne, nemmeno Rifondazione è un cavallo bianco che non suda. E Liberazione vale, resta un oggetto di valore lungo tutti i suoi quasi vent'anni. Molte luci e ombre, molte appartenenze, molte diversità, molti dissensi si condensano dentro e attorno al giornale. Non è, del resto, il giornale del partito che conta, a tutt'oggi, almeno cinque scissioni, diverse correnti, varie aree e plurime mozioni?
Agitato, inquieto dentro le sue non molte stanze, ma sempre al suo posto, in basso a sinistra, una voce mai flebile. Dentro fino al collo nella battaglia politica e sociale. Nel 1998, quando siamo già diventati quotidiano, un giornalone di 24 pagine, a dirigere Liberazione arriva Sandro Curzi, un "nome" del giornalismo italiano, un volto noto della televisione. E' un gran momento per l'organo Prc, l'ex pulcino nero. Le vendite sono aumentate, i soldi pure (anche grazie al contributo pubblico per l'editoria), la redazione si allarga con nuove assunzioni e scelti collaboratori. Ma è l'organo del Prc, e tale resta. Sabato 21 novembre 1998, il primo numero di Liberazione diretto da Sandro Curzi e Rina Gagliardi ha in copertina il disegno di una locomotiva in marcia con il titolo che dice: "Il quotidiano contro il pensiero unico". Vauro se ne è andato, purtroppo, ci ha lasciato al tempo della prima scissione (ora il nostro disegnatore è Apicella, una vignetta al giorno che fa molto bene al giornale).
Sei anni che contano, con Curzi, la redazione cresce ancora, sport, critica televisiva, costume, rubriche come "La Spettatrice" e "Finesettimana" sono un buon osservatorio, Liberazione occupa un dignitoso posto nella difficile scena dei media.
Non è mai stato un idillio, questo giornale. E infatti Curzi è il nono tra i direttori - undici, da Luciano Doddoli a Dino Greco, passando per Diliberto, Castellina, Manisco, Manuela Palermi, Carlo Benedetti, Piergiorgio Bergonzi - che si sono succeduti a Liberazione ; con l'assetto redazionale che è stato più volte visto e rivisto. Non senza strascico di polemiche, dissapori, malumori e dimissioni (così fan tutti, del resto).
Il partito e il suo giornale. Amato, criticato, generosamente finanziato e sostenuto. Nonostante ce l'abbia messa tutta, Piero Sansonetti, il penultimo direttore, non è riuscito a strappare Liberazione al suo "destino" di «giornale del partito». Bello era bello, buona carta, sofisticata grafica, la magnifica pagina di Darwin Pastorin, gli speciali della domenica, persino il colore, multiplo e abbondante, la Liberazione di Sansonetti non si fa mancare nulla (con signorile sprezzo dei costi, che presto busseranno alla porta...). Il giornale del partito di giorno in giorno tende sempre più a diventare giornale-partito, a diventare il giornale che esibisce espliciti incitamenti verso l'«oltre Rifondazione», che teorizza che il comunismo è morto, il partito è morto e che «senza tessera è meglio».
Fu la crisi più grave; Sansonetti alla fine, 2009, venne sfiduciato dall'editore e dovette dimettersi. Il partito ha tenuto il «suo» giornale. Lo ha difeso a caro prezzo.
Con quelle due parole rimaste lì, fermamente al loro posto, in bell'evidenza sotto la testata: «giornale comunista».
Liberazione 04/07/2010, pag 4
Maria R. Calderoni
N ascemmo di sabato, era il 12 ottobre del 1991, giorno fortunato. Era nato il "N. zero" di Liberazione , l'organo - si proprio l'organo - il giornale ufficiale dell'appena nato Partito della Rifondazione comunista, sortito all'incanto dalle ceneri di Rimini, quando il Pci venne sepolto vivo e la Quercia Pds vide per la prima volta la luce. La presentazione del "N. zero" avvenne alla grande, tutta la leadership presente, Garavini-Cossutta-Libertini, e non mancò un non folto ma rappresentativo gruppo di giornalisti. Formato grande, caratteri neri, spoglio, elementare, "militante" dalla testa ai piedi. Editoriale debitamente firmato dal segretario nazionale Sergio Garavini, grande foto a tutta pagina e titolone adeguato: "Siamo il popolo della Costituzione"; a seguire, nelle pagine interne, reportage su "Cuba, l'intollerabile anomalia" e un fantastico "speciale" intitolato: "Comunisti, perché".
Eravamo nati, e Liberazione era stata un parto difficile. Partito di passioni - ancora prima di nascere Rifondazione fu percorsa da venti, soffi e correnti - anche l'idea stessa di giornale trascinò con sé, fin dal primo giorno, ardori, polemiche, spiriti. Ricordo discussioni interminabili, in comune e a tavoli "separati"; eravamo nuovi in tutto, niente redazione, niente giornalisti, niente esperti del ramo, nebbia folta su un probabile direttore (o meglio, in parecchi avevano ognuno una propria idea di direttore e girava una rosa di nomi che variava di giorno in giorno...), niente (o pochissimi) soldi, niente computer. «Sergio, Armando, io e San Francesco», fu il titolo di una intervista di Lucio Libertini che ebbe molta eco sulla stampa nazionale. Veri "avventurieri", Luciano Doddoli accettò di mettersi alla testa di quella inesistente redazione, tutta fatta di gente digiuna del mestiere, a cui bisognava insegnare l'abc. Fu un "tormento" anche la scelta del nome, ma alla fine - e non senza patemi, liti e peripezie - la scelta fu quella, Liberazione . Una bella testata, ben disegnata, il giusto tocco di rosso. E quel 12 ottobre Liberazione era proprio lì, in vera carta stampata. Fortemente voluta dal neo partito; in molti furono pronti a rimboccarsi le maniche. C'era molta energia intorno. Indimenticabile l'enorme Bandierone - tante, tantissime bandiere rosse cucite insieme - sollevato e portato per le vie di Roma fin sotto il teatro Brancaccio dove Rifondazione teneva il suo inizio.
Settimanale, 12 paginone. Il vero numero 1 esce il 26 ottobre 1991, era un sabato anche quello. E da allora non ha mai bucato un giorno, quella scommessa impossibile chiamata Liberazione . E' un numero quasi interamente dedicato alla celebrazione del partito che nasceva; c'è un paginone "glorioso", stile vecchia Unità, il titolo, sopra una foto gigante di folla e bandiere, è bello e intenso: "Giù le mani dalla nostra vita". E l'ampio servizio tutto in corsivo - "La ballata del 12 ottobre" - che apre lo speciale sulla manifestazione per le vie della capitale del partito appena nato, inizia così: «Come un corteo dei bei tempi andati»; e finisce così: «Siamo qui, siamo vivi. Comunisti, cos'è che non va?».
E' da subito un giornale forte. Di appartenenza. Povero, certo, nemmeno lontanamente paragonabile alla ricchezza, bellezza, enormità di pagine, di firme e di mezzi della "grande" stampa, delle testate altisonanti e potenti con cui non possiamo nemmeno sognarci di competere sul piano commerciale, editoriale e,tampoco, delle tirature. Ma siamo in campo, voce in controtendenza, autorevole, voce di un partito «che c'è», che raccoglie da subito un bel po' di voti e che da subito entra in parlamento. Liberazione è da subito nelle "mazzette" che contano.
Quei primi numeri del nostro giornale-lenzuolo, piccolo ma deciso, che ha già tante belle firme, Luciano Canfora, Lucio Magri, Paolo Volponi, Luciana Castellina, Raul Mordenti, Luigi Pestalozza, Aldo Garzia (e Lucio Manisco che già ci mandava pezzi su "Quell'ometto miliardario che fa tremare George Bush e Bill Clinton", cioé Ross Perot). E già avevamo belle fotografie (Piero Ravagli, Gabriella Mercadini, Tano D'Amico); e avevamo Vauro (quando Rifondazione lanciò la proposta di tassare più equamente le rendite finanziarie, fece epoca la sua vignetta che recitava "I comunisti mangiano i Bot"). La redazione imparava sul campo, la fatica era tanta, i lussi pochi anzi inesistenti, gli errori non mancavano: ma il giornale - il «nostro» giornale - non si è più fermato. Era "lui", un giornale strettamente di partito, il «giornale del partito», felice di esserlo. Da subito scapigliato, indisciplinato, creativo. Un giornale che esprime bene l'anima del momento, il calore della rivolta contro lo strappo di Rimini, il senso della nostra presenza ribelle. E' il 28 dicembre 1991 e la copertina di Liberazione è un vessillo rosso stilizzato con scritto sopra: "Non si ammaina la storia".
Partito-giornale, un legame stretto. Sempre, fin dai primissimi numeri, compaiono le firme dei dirigenti, Garavini, Cossutta, Libertini (che si firmava anche con due pseudonimi); e poi tanti altri, Russo Spena, Claudio Grassi, Franco Giordano; Bertinotti anche lui da subito come esponente di "Essere Sindacato"; e tanti altri, dal centro come dai territori, dalle federazioni e dai circoli. Nichi Vendola è anche lui presente fin dal primo numero, inaugura una rubrica che si chiama "abecedario" (la prima parola di cui dà la giusta "spiega", è "omologazione", e si capisce perché).
Un giornale molto amato e molto ambito, anche molto "guardato". Guardato da vicino, soppesato, palpato, "creatura" particolarmente preziosa. Niente agiografia. Fin dai primi momenti - sì fin dai primi giorni - Liberazione ha attirato molta passione, ed è stata un terreno di incontri e scontri palesi e non, di contese, contestazioni, dissensi. Di amori e odi, grandi. Un giornale di partito ma non pacifico, canonico. Nel quale si riflettono le tante anime di Rifondazione, ognuna con il suo appeal verso l'"organo". Comunista sempre, conformista mai, va bene; Liberazione dimostra validamente di essere dotata di vita propria. Anche se, ovviamente, il partito c'è e il giornale ne rispecchia vita e miracoli, fasi e svolte, chi sale e chi scende dentro le mutevoli geometrie interne, nemmeno Rifondazione è un cavallo bianco che non suda. E Liberazione vale, resta un oggetto di valore lungo tutti i suoi quasi vent'anni. Molte luci e ombre, molte appartenenze, molte diversità, molti dissensi si condensano dentro e attorno al giornale. Non è, del resto, il giornale del partito che conta, a tutt'oggi, almeno cinque scissioni, diverse correnti, varie aree e plurime mozioni?
Agitato, inquieto dentro le sue non molte stanze, ma sempre al suo posto, in basso a sinistra, una voce mai flebile. Dentro fino al collo nella battaglia politica e sociale. Nel 1998, quando siamo già diventati quotidiano, un giornalone di 24 pagine, a dirigere Liberazione arriva Sandro Curzi, un "nome" del giornalismo italiano, un volto noto della televisione. E' un gran momento per l'organo Prc, l'ex pulcino nero. Le vendite sono aumentate, i soldi pure (anche grazie al contributo pubblico per l'editoria), la redazione si allarga con nuove assunzioni e scelti collaboratori. Ma è l'organo del Prc, e tale resta. Sabato 21 novembre 1998, il primo numero di Liberazione diretto da Sandro Curzi e Rina Gagliardi ha in copertina il disegno di una locomotiva in marcia con il titolo che dice: "Il quotidiano contro il pensiero unico". Vauro se ne è andato, purtroppo, ci ha lasciato al tempo della prima scissione (ora il nostro disegnatore è Apicella, una vignetta al giorno che fa molto bene al giornale).
Sei anni che contano, con Curzi, la redazione cresce ancora, sport, critica televisiva, costume, rubriche come "La Spettatrice" e "Finesettimana" sono un buon osservatorio, Liberazione occupa un dignitoso posto nella difficile scena dei media.
Non è mai stato un idillio, questo giornale. E infatti Curzi è il nono tra i direttori - undici, da Luciano Doddoli a Dino Greco, passando per Diliberto, Castellina, Manisco, Manuela Palermi, Carlo Benedetti, Piergiorgio Bergonzi - che si sono succeduti a Liberazione ; con l'assetto redazionale che è stato più volte visto e rivisto. Non senza strascico di polemiche, dissapori, malumori e dimissioni (così fan tutti, del resto).
Il partito e il suo giornale. Amato, criticato, generosamente finanziato e sostenuto. Nonostante ce l'abbia messa tutta, Piero Sansonetti, il penultimo direttore, non è riuscito a strappare Liberazione al suo "destino" di «giornale del partito». Bello era bello, buona carta, sofisticata grafica, la magnifica pagina di Darwin Pastorin, gli speciali della domenica, persino il colore, multiplo e abbondante, la Liberazione di Sansonetti non si fa mancare nulla (con signorile sprezzo dei costi, che presto busseranno alla porta...). Il giornale del partito di giorno in giorno tende sempre più a diventare giornale-partito, a diventare il giornale che esibisce espliciti incitamenti verso l'«oltre Rifondazione», che teorizza che il comunismo è morto, il partito è morto e che «senza tessera è meglio».
Fu la crisi più grave; Sansonetti alla fine, 2009, venne sfiduciato dall'editore e dovette dimettersi. Il partito ha tenuto il «suo» giornale. Lo ha difeso a caro prezzo.
Con quelle due parole rimaste lì, fermamente al loro posto, in bell'evidenza sotto la testata: «giornale comunista».
Liberazione 04/07/2010, pag 4
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