mercoledì 15 giugno 2011

«Figli di immigrati e figli della banlieue. Ecco perché i calciatori possono far paura»

Stéphane Beaud Sociologo, considerato l'erede di Pierre Bourdieu, autore di "Traitres à la nation?"

Guido Caldiron
La Francia di Zidane, Thuram, Vieira, Anelka e Henry. La Francia "Black Blanc Beur" dei trionfi calcistici e delle grandi affermazioni simboliche della fine degli anni Novanta, "una nazionale che porta i colori del paese molto più della sua politica", non ha retto all'urto della deriva identitaria imposta da Nicolas Sarkozy alla politica francese allo scopo di recuperare qualche voto all'estrema destra del Front National e all'imporsi nella società transalpina di un ossessivo dibattito sull'immigrazione, la sicurezza e le presunte derive "comunitarie". E quando anche i risultati in campo non sono arrivati più, come è accaduto l'estate scorsa in Sudafrica in occasione dei Mondiali, tutto è sembrato andare in pezzi: l'equilibrio interno della squadra nazionale francese di calcio e lo stesso simbolo di convivenza e meticciato che ha rappresentato per molto tempo.
Così, prima si è parlato, nel 2010, dello "sciopero" dei giocatori contro le scelte dell'allenatore Raymond Domenech nei termini di "un atto di insubordinazione", di "una rivolta" e della figuraccia rimediata nel torneo, fuori fin dal girone eliminatorio, come di "una sconfitta sportiva e morale" e di un "disatro nazionale", poi è arrivato, negli ultimi mesi, lo scandalo delle "quote etniche" che sono costate il posto a più di un dirigente del calcio francese. L'ipotesi che era stata ventilata dallo stesso commissario tecnico francese Laurent Blanc, era quella di introdurre delle quote sul numero dei giocatori arabi ed africani nei vivai delle squadre transalpine per evitare che gli atleti con doppio passaporto, cresciuti in Francia, decidessero di giocare con una nazionale diversa da quella di Parigi. L'altra motivazione che aveva fatto pensare alle "quote", e urlare giustamente al razzismo una parte dell'opinione pubblica, era quella di ottenere per questa via una sorta di "riequilibrio" etnico, tra bianchi, oggi minoritari, e neri, nell'équipe nazionale.
Che quella che si gioca sul "colore" del calcio e dei suoi protagonisti sia perciò diventata rapidamente una battaglia tutta politica, è evidenziato dal facile parallelo che si può fare con il dibattito sull'"identità nazionale" che ha segnato l'ultimo anno del dibattito pubblico francese. Un «dibattito - come ha sottolineato lo storico Michel Winock davvero - molto sospetto: si tratta di definire questa identità per servire da modello per gli stranieri che vengono a vivere in Francia o per proteggersi da essi? L'identità nazionale non si decreta. Se lo Stato se ne interessa, non lo fa forse per arrivare a delle conclusioni normative, per definire una sorta di quintessenza della francesità nei confronti della quale sarebbe lecito fare la distinzione tra buoni e cattivi francesi?». Allo stesso modo viene da chiedersi se l'enfasi posta intorno alla "fedeltà" o al "tradimento" dei giocatori della Nazionale non abbia a che fare con le loro origini sociali, i figli dellle banlieue popolari, e, soprattutto, con il colore della loro pelle, gli "immigrati" di seconda o terza generazione, vale a dire in realtà i figli dei grandi flussi migratori giunti nel paese dal Maghreb e dall'Africa Sub-sahariana.
E intorno al significato reale del dibattito sul calcio che si è aperto di recente in Francia ruota l'ultimo lavoro di uno dei maggiori sociologi del paese, considerato per molti versi l'erede di Pierre Bourdieu, Stéphane Beaud: Traîtres à la nation? appena pubblicato da La Découverte (pp. 288, euro 18).
Docente di sociologia all'Università di Nantes, Beaud ha indagato a lungo l'attualità del lavoro operaio in Francia, Retour sur la condition ouvrière (Fayard, 1999), prima di occuparsi dei giovani di banlieue e del loro percorso formativo, 80% au bac… et après? (2003) e Pays de malheur! (2004) entrambi pubblicati da La Découverte e Violences urbaines, violence sociale (Fayard, 2003). Inoltre ha guidato il lavoro dell'equipe che ha tracciato le quaranta voci - da "banlieusard" a "sans-domicile" - di La France invisibile (La Découverte, 2006) un libro che ha scosso la Francia illuminando quella sua parte in ombra fatta di povertà e di molte forme di esclusione e ha scritto la voce sul rapporto tra movimento operaio francese e immigrazione per il volume collettivo De la question sociale à la question raciale? (La Découverte, 2006).
Nel suo nuovo libro, scritto con la collaborazione di Philippe Guimard, Stéphane Beaud, analizza innanzitutto le polemiche sorte intorno alla sconfitta della Nazionale francese ai mondiali sudafricani dello scorso anno. In un clima di "unità della Nazione", sottolinea il sociologo, i Bleus, come i francesi chiamano gli atleti della loro équipe, sono stati trattati da "traditori" e hanno finito, in un clima sociale reso ancora più teso dagli effetti della crisi economica, per essere indicaticome i "colpevoli" e i responsabili di ogni sciagura del paese. A questa aperta stigmatizzazione del comportamento, fuori e dentro il campo, dei giocatori, si è aggiunto un atteggiamento esplicitamente discriminatorio, una sorta di domanda del tipo: "Ma cosa vi aspettavate da loro? Sono pur sempre i figli delle banlieue e dell'immigrazione di massa...". Un atteggiamento, quello evocato dai media, dai rappresentanti istituzionali e dai politici all'indomani della sconfitta in Sudafrica, che sembra segnalare in profondità cosa sia accaduto nel paese nel decennio che separa le vittorie di Zidane dalle sconfitte di Ribéry. «La squadra francese era partita per il Sudafrica con la missione, indicata da Sarkozy, di riportare a casa un trofeo che potesse far dimenticare la crisi che si vive in patria. - spiega Beaud, prima di aggiungere come - Invece le "due crisi", quella sociale del paese e quella calcistica vissuta dall'équipe nazionale, abbiano finito per coincidere». E' a questo punto che la denuncia del "tradimento" che sarebbe stato compiuto dagli atleti ha assunto la forma della ricerca di un capro espiatorio cui "far pagare" il malessere diffuso. «I politici populisti - sottolinea ancora Beaud - hanno speculato su questa sconfitta e hanno aprofittato del clima che si era creato per colpevolizzare questi ragazzi, eredi dell'immigrazione postcoloniale».
L'altro elemento che Stéphane Beaud pone al centro del suo lavoro sembra stabilire una relazione tra l'affaire football e la crisi urbana di cui la rivolta delle banlieue è diventato un drammatico simbolo. Accanto alle accuse razziste, i giocatori della Nazionale francese sono infatti vittime anche di quel pregiudizio sociale che vede nei giovani delle periferie uno dei "grandi problemi della Francia". «I Bleus - spiega Beaud - sono figli della segregazione urbana. Il che equivale, ancora una volta, a dire che sono soprattutto "neri" e "arabi", ma non solo. Le biografie dei giocatori della Nazionale raccontano come si tratti ancora, e in maggioranza, di figli di operai e di lavoratori manuali nei confronti dei quali si è espresso un vero e proprio disprezzo sociale, quasi un "razzismo sociale". Con il paradosso e la contraddizione di fondo che questi ragazzi, figli delle classi popolari, simboleggiano oggi la figura del "vincitore" nello scenario del "foot-business" dell'era neoliberista. Proprio per questo agli eroi individualisti del calcio moderno non è perdonato di esprimere una critica, o ancora peggio, un accenno di ribellione, alle regole del gioco».


Liberazione 29/05/2011, pag 14

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In libreria "Noir et Français!" e "On ne nait pas Noir, on le devient"

Cosa significa essere neri e francesi? Due inchieste cercano di spiegarlo

Il dibattito sorto intorno alla Nazionale di calcio francese ne cela secondo molti osservatori un altro: quello sulla non assunzione da parte di una componente non trascurabile dell'opinione pubblica transalpina dello spazio e del ruolo occupato dai "neri" nel paese. Un tema meno indagato di quello dell'islamofobia o dell'arabicidio ma non per questo meno preoccupante. Due ricerche pubblicate negli ultimi anni hanno cercato di approfondire il tema. Da un lato Stephen Smith e Géraldine Faes, studiosi della storia africana, hanno indagato in Noir et Français! (Pluriel, 2006) la condizione nera in Francia dall'epoca coloniale ad oggi. Dall'altro il filosofo e drammaturgo Jean-Louis Sagot-Duvauroux indaga in On ne naît pas Noir, on le devient (Non si nasce neri, lo si diventa) (Albin Michel, 2004) quella che potrebbe essere definita come la costruzione sociale della "negritudine".
Nel primo caso emerge tutta la difficoltà di questa parte della popolazione francese a veder riconosciuti fino in fondo i propri diritti di cittadinanza. Eredi degli "zoo-umani", dello schiavismo e dell'occupazione coloniale francese a sud del Sahara, i neri, spiegano i due autori, sono costantemente ricondotti alla loro origine "straniera", quando pian piano si comincia invece a riconoscere il contributo dell'Islam e della cultura araba alla costruzione dell'Europa e della Francia.
Quanto alla seconda ricerca, parte da un assunto: quello secondo cui l'essere neri non vuol dire solo avere un ben preciso colore della pelle, quanto piuttosto essere giudicati e considerati in base a un amalgama di riferimenti socio-culturali che sembrano non coincidere con quelli in base ai quali si è associati all'"identità francese". Come a dire che indipendentemente dai propri documenti, l'essere nero ricondurrebbe sempre e comunque a una condizione di estraneità rispetto alla République. E' a partire da questa constatazione, resa drammatica dagli episodi di razzismo e di discriminazione che riempiono le cronache francesi che si è costruita, secondo Sagot-Duvauroux, molto spesso l'identità dei giovani neri su cui le esperienze e la cultura personali finiscono per rischiare di essere schiacciate sotto il peso dello sguardo, ostile, dei "bianchi".


Liberazione 29/05/2011, pag 14

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