venerdì 10 giugno 2011

Sulle tracce di Gramsci, da Viareggio fino a Calcutta

Anniversario non di maniera: due libri sul grande intellettuale sardo

Guido Liguori
Nell'ormai lontano 1988 Eric Hobsbawm ci aveva informato del fatto che, secondo una ricerca dell'Unesco, Gramsci era il saggista italiano più conosciuto nel mondo dopo Machiavelli. Ora Angelo d'Orsi aggiorna il dato della fortuna del comunista sardo - nato 120 anni fa, il 20 gennaio 1891, e scomparso esattamente 74 anni orsono, il 27 aprile 1937 - scrivendo che «Gramsci è oggi uno dei duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere». La citazione è tratta dal saggio introduttivo contenuto in uno dei due libri di cui qui voglio parlare, quello scritto da Francesca Chiarotto: Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra (Bruno Mondadori, pp. 233, euro 20). Ma potrebbe anche essere posta a esergo dell'altro volume di cui tratterò e di cui è autore Michele Filippini: Gramsci globale. Guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo (Odoya, pp. 174, euro 13). Ci sono alcune buone ragioni perché questi libri meritino di essere segnalati, e proprio oggi: in primo luogo essi escono in libreria in questi giorni di "anniversario gramsciano" e offrono l'occasione per una rievocazione non di maniera; in secondo luogo sono due ottimi lavori scritti da due studiosi giovani, il che dimostra come Gramsci continui a suscitare l'interesse appassionato di sempre nuove generazioni di ricercatori e militanti; infine, e soprattutto, i due libri sono entrambi dedicati più che altro agli "usi" di Gramsci, uno ricostruendone la storia e l'altro la fenomenologia odierna.
Operazione Gramsci
Cosa è questa "operazione Gramsci" di cui parla Chiarotto? Il libro ricostruisce la diffusione della fama e del pensiero di Gramsci dal dopoguerra all'inizio degli anni '70, ma soprattutto indaga (non a caso la copertina richiama quella dei "gialli Mondadori") l'"operazione" con la quale Togliatti e il Pci si adoperarono per introdurre il pensiero del comunista sardo nella cultura politica del nostro paese. Il pregio del libro sta soprattutto nel notevole lavoro di ricerca archivistica che ha alle spalle, per cui l'autrice intreccia libri e discorsi pubblici con lettere e documenti poco o per nulla noti. Secondo Chiarotto, «Togliatti, in un difficile equilibrio tra sforzo di autonomia rispetto alle direttive staliniane e la fedeltà all'Unione sovietica, usò con intelligenza e spregiudicatezza la figura e l'opera di Gramsci per confermare, accanto all'identità comunista, la natura nazionale di un partito in via di profonda riorganizzazione… l'opera gramsciana fu utilizzata quale mezzo per avviare un dialogo con la società italiana».
La difficoltà stava nel fatto che gli scritti gramsciani erano frammentari ed ellittici. Si doveva pubblicarli nella forma in cui si trovavano (come avrebbe fatto negli anni '70 Valentino Gerratana) o li si doveva rendere più accessibili raggruppandoli per temi? Prevalse questa seconda ipotesi, e se possiamo dire che la forma scelta non fu esente da limiti, sappiamo anche che fu allora la più proficua, la più utile per far conoscere Gramsci e assicurargli grande diffusione. Al successo dell'"operazione" concorse il Premio Viareggio 1947 assegnato alle Lettere dal carcere. Apprendiamo dal libro il ruolo avutovi, oltre all'inventore del premio Leonida Repaci, da due giurati d'eccezione: il grande latinista Concetto Marchesi e il grande critico letterario Giacomo Debenedetti. Parte della destra allora insorse e gridò al complotto comunista. Ma anche non mancò in quell'occasione chi - tra le file degli ammiratori di Gramsci - storse la bocca. A Cesare Pavese - che pure era magna pars della Einaudi, nonché iscritto al Pci - il Premio sembrò una diminutio: come se, scrisse in privato, avessero voluto dare un premio a Machiavelli o a Cattaneo: Gramsci era troppo grande per un premio letterario! Il repubblicano Gabriele Pepe lamentò invece l'aurea di borghese mondanità che circondava il Premio Viareggio, così lontana dallo stile e dagli interessi di Gramsci. In una lettera privata, al contrario, Togliatti negò con forza che il riconoscimento fosse inadatto alle Lettere, aggiungendo che comunque la politica - pro o contro Gramsci - dovesse astenersi da ogni intervento per influenzare i giurati. A parte il Premio Viareggio, l'"operazione Gramsci" andò in porto perché era una grande operazione culturale e perché la grandezza di Gramsci era destinata a imporsi nonostante le varie "cortine di ferro". L'edizione "tematica" fu allora la scelta giusta (come lo stesso Gerratana ebbe ad affermare negli anni '70 con grande convinzione). Né va dimenticato che anche l'"edizione critica" fu fortemente voluta da Togliatti, e senza censure, all'inizio degli anni '60. E' vero che si era nel frattempo usciti dallo stalinismo: ma saper leggere i tempi e fare le cose nei tempi giusti (che è la condizione perché sortiscano gli effetti migliori) è proprio prerogativa del grande politico.
Gramsci globale
L'uso togliattiano di Gramsci non fece da velo alla comprensione che Togliatti aveva della grandezza multiversa dei Quaderni. Nel 1964 egli arrivò ad affermare che il comunista sardo gli pareva trascendere «la vicenda storica del nostro partito»: Gramsci era tanto grande da oltrepassare i limiti del Pci. Quanto fosse lungimirante tale affermazione lo si vede dal libro di Filippini su Gramsci globale. Anche la grafica di questo volume gioca un po' con la "detective story", poiché il risvolto di copertina indica i "protagonisti" del libro come fossero altrettanti personaggi di un giallo con Maigret o Poirot in edizione popolare. Leggiamo l'elenco: «Antonio Gramsci, il protagonista. Partha Chatterjee, l'indiano che ascolta i subalterni. John Fonte, l'uomo del think tank. Ranajit Guha, il decano degli storici indiani radicali. Stuart Hall, l'inglese-giamaicano che studia i fenomeni culturali. Rush Limbaugh, il conservatore con l'audience più alta. James Thornton, il predicatore pazzo. Cornel West, l'intellettuale afroamericano cristiano e marxista. Raymond Williams, il gallese che conosce la cultura popolare».
A un lettore informato basta questo elenco per capire "l'operazione Filippini": frugare nella cultura di massa come nei più seri "pensatoi" della destra e della sinistra in giro per il mondo, per studiare come sia "usato" oggi il pensiero di Gramsci in luoghi e tempi così lontani da quelli in cui nacque. I conservatori statunitensi e la scuola degli "studi culturali" di Birmingham, il predicatore che è anche filosofo pragmatista nelle più prestigiose università statunitensi e la storiografia progressista indiana che ha valorizzato come nessuno mai prima la categoria gramsciana di "subalterni". Si va dagli studi sul razzismo all'analisi del thatcherismo; dalla paura dell'egemonia da parte della destra made in Usa all'applicazione creativa delle note sul Risorgimento alla situazione dell'India postcoloniale.
Molti gli spunti di grande interesse e i siparietti più che godibili, che sposano l'analisi profonda di autori di grande levatura a quella della cultura "bassa" o presunta tale, dall'hip hop al cinema, in linea con l'obiettivo di alcuni dei protagonisti del libro, che è quello di «modificare il senso comune partendo proprio dalla cultura popolare» e, a volte, dallo «spirito popolare creativo». Un "uso" della lezione gramsciana che non sarebbe dispiaciuto al comunista sardo. Dovremmo essere in grado anche noi italiani di imitare questo uso creativo di Gramsci, senza però perdere di vista - come spesso fanno gli autori studiati da Filippini - le coordinate di fondo dell'autore dei Quaderni e gli obiettivi della battaglia gramsciana: una lettura della realtà in termini non solo di differenze tra culture ma di differenze tra classi (e di lotta di classe) e l'obiettivo del superamento della società capitalistica. Il comunista Gramsci non smise mai di crederci.


Liberazione 27/04/2011, pag 7

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