mercoledì 15 giugno 2011

Marxismo-umorismo

Raul Mordenti
La famosa battuta di Woody Allen «Dio è morto, Marx è morto e neppure io mi sento tanto bene» fa ridere soltanto chi è a conoscenza del fatto che esiste un serioso dibattito teologico sulla "morte di Dio" e inoltre sa che un certo Marx ha avuto qualche importanza nella storia dell'umanità; chi ignora queste due cose non trova niente da ridere in quella frase perché non può cogliere il geniale (e comico) accostamento di due cose grandissime (la morte di Dio e la crisi del marxismo) con la piccolezza del non sentirsi tanto bene. Insomma l'umorismo, per poter funzionare, richiede che il destinatario conosca il contesto dell'enunciato, cioè si ride solo se si conoscono bene le cose o le parole che l'umorismo accosta in modo imprevisto e, appunto, comico. Questo è il motivo per cui rischia di sfuggirci che Karl Marx (insisto: Karl, non Groucho) un secolo e mezzo or sono faceva anche molto ridere i suoi lettori, e naturalmente faceva anche molto incazzare i poveretti (di solito: i potenti del suo tempo) che restavano vittime del suo sarcasmo.
Naturalmente questo ridere (e far ridere) dei potenti ha sempre un grande significato politico.
L'umorismo, come la punta di un ago, sgonfia in un attimo il pallone gonfiato (gonfiato d'aria) del potere: basta una battuta o una caricatura per far capire alle masse che il re è nudo, che chi ci comanda - se gli togliamo l'apparato con cui si pavoneggia e si nasconde - è di solito un miserabile, e spesso un miserabile mascalzone, di cui si può e si deve ridere. Per questo, come insiste da sempre Dario Fo, il potere non tollera l'umorismo, e per questo il popolo vi ha sempre fatto ricorso, come segno e inizio della propria autonomia cultural-politica dal potere. Una frase un po' melodrammatica del '68 diceva: «Se non puoi uccidere il tuo padrone almeno odialo»; noi diremmo più pacatamente: «Se vuoi liberarti davvero del tuo padrone comincia almeno a ridere di lui».
Inoltre Gramsci ci insegna che il "sarcasmo appassionato" (di cui egli vede in Marx «l'espressione più alta») ha un grande valore nella lotta per l'egemonia: è infatti molto importante che (come lui scrive, una volta tanto usando un'espressione volgare) un intellettuale del proletariato possa «far le fiche» agli intellettuali della borghesia, cioè smascherarli, ridicolizzarli, facendo emergere in loro «il puzzo di cadavere che trapela dal belletto».
E' quanto lui stesso fece nei Quaderni con la rubrica sui "nipotini di padre Bresciani" (costui era un gesuita, feroce nemico del Risorgimento, che già De Sanctis aveva maltrattato e deriso); una rassegna degli intellettuali italiani del periodo fascista che si segnalavano per untuosa malafede, per opportunismo, per sfacciataggine, per miseria intellettuale e morale. Leggendo oggi quella rubrica gramsciana (come invitiamo tutti caldamente a fare) non può sfuggire il fatto che il berlusconismo e i suoi intellettuali brillino - si fa per dire - di tipiche virtù "brescianesche", anzi sono integralmente "brescianeschi". Brescianesco è Emilio Fede che dichiara di voler essere sepolto nel mausoleo di Arcore accanto a Silvio; brescianeschi sono i libri di Pansa sui "crimini della Resistenza"; assolutamente brescianesca è la pubblica conversione a Gesù di Magdi (ora: Cristiano) Allam in funzione anti-islamica; brescianeschi gli articoli sul lusso in cui vive a Cuba il padre di Fabio Di Celmo (il ragazzo ucciso a L'Avana dai terroristi anticastristi); del tutto brescianesche sono le "clamorose rivelazioni" sulle manovre di Togliatti per far morire in carcere Gramsci che fu poi "suicidato" dalla finestra della clinica ad opera del Kgb sovietico (con la complicità...della cognata Tania!). E naturalmente è brescianesco, dalla testa ai piedi, Bruno Vespa, con i suoi plastici, il suo mostrare gli oggetti usati per sfondare il cranio a un neonato, i suoi mostruosi ospiti fissi. Ma questo elenco di schifezze e orrori potrebbe continuare, e dovremmo farlo in altra sede e con più calma.
Qui ci limitiamo a proporre al lettore un bell'esempio della risata di Marx da Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, che Engels (ripubblicando il testo nel 1896) definì «un'opera geniale», perché «dimostra», nel concreto di una vicenda storica, come si muovono e si comportano le diverse classi. Dunque un testo marxiano da leggere per intero, magari assieme a Le lotte di classe in Francia, dello stesso Marx.
Ma ora, per ridere un po' anche noi come certo risero i compagni del tempo, ci basterà sapere che qui Marx descrive la vera natura di classe di Luigi Bonaparte, detto "il piccolo" per distinguerlo da suo zio Napoleone (il quale invece fu "il grande", benché fosse ancora più basso di Berlusconi, senza tacchi, e di Sarkozy). Luigi Bonaparte, un avventuriero massone e affetto da satiriasi, eletto presidente in risposta al formidabile "terremoto" proletario del giugno '48, fece un colpo di Stato il 2 dicembre del 1851 e si autonominò Imperatore Napoleone III (il "18 brumaio" vero è invece il 9 novembre del 1799, la data in cui il Napoleone vero fece il suo golpe). Nel passo che proponiamo, Marx spiega quali materialissimi interessi di classe fossero dietro quell'Imperatore di cartapesta. L'essere «un personaggio mediocre e grottesco» non impedì a Napoleone III di macchiarsi di fiumi di sangue proletario, non escluso quello dei difensori della Repubblica Romana, contro cui mandò le sue truppe per ingraziarsi il papa e i cattolici francesi.
Per risparmiare spazio prezioso, al posto del nome Bonaparte si leggerà B. Ogni riferimento all'attualità è naturalmente lecito, e ben motivato, a condizione di tenere sempre presente ciò che Marx scrive, proprio all'inizio dell'opera da cui citiamo: «Hegel osserva (...) che tutti i grandi fatti della storia e i loro personaggi compaiono, per così dire, a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa».


Liberazione 28/11/2010, inserto "Compagna Satira", pag 17

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