lunedì 13 giugno 2011

«La globalizzazione dell’industria culturale non schiaccia le differenze»

Frédéric Martel Studioso dell’industria culturale, autore di “Mainstream”

Guido Caldiron
«Questa inchiesta mi ha portato a Hollywood, ma anche a Bollywood, a Mtv, a Tv Globo, nelle periferie americane alla scoperta di un gran numero di multisale e nell'Africa subsahariana dove ci sono davvero pochi cinema, a Buenos Aires alla ricerca della musica "latina" e a Tel Aviv per capire l'americanizzazione di Israele. Mi sono occupato del piano di conquista di Rupert Murdoch in Cina e della strategia di guerra dei miliardari indiani e sauditi contro Hollywood. Ho cercato di capire come si diffondono il J-Pop e il K-Pop, il pop giapponese e coreano in Asia, e perché le serie televisive si chiamano "drama" in Corea, "telenovelas" in America Latina e "teleromanzi del Ramadan" in Egitto». Già consigliere di Martine Aubry al Ministero del lavoro di Parigi tra il 1997 e il 2000, Frédéric Martel ha pubblicato nel 2006 De la Culture en Amérique (Gallimard) e collabora abitualmente con diverse riviste e giornali, tra cui il Magazine littéraire, Dissent, The Nation e Haaretz. Per scrivere Mainstream. Come si costrusce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, pubblicato da Feltrinelli lo scorso anno, ha viaggiato in lungo e in largo per il pianeta per coinque lunghi anni per incontrare i protagonisti del nuovo show business globale.
Martel sarà uno degli ospiti della 24a edizione del Salone Internazionale del Libro che si apre domani al Lingotto di Torino, e che si concluderà lunedi 16 maggio - l'appuntamento con lui e Stefano Salis è fissato per domani alle 13 presso la Sala Rossa.

In "Mainstream" lei racconta lo sviluppo dell'industria culturale internazionale ma rifiuta l'idea che si tratti di un'"americanizzazione del mondo", quanto piuttosto di un conflitto che vede prevalere gli Stati Uniti. Cosa sta accadendo?
Credo che negli Usa si producano dei film, piuttosto che dei brani musicali pop, pensando anche al resto del mondo. Cosa che non avviene in Francia o in Italia, dove si pensa più che altro alla produzione domestica. Gli americani hanno sia le risorse produttive che questa particolare sensibilità che li pone perciò in testa alla cultura "mainstream". In realtà perché le produzioni cinematografiche statunitensi, che hanno spesso dei costi altissimi, siano in attivo, non c'è bisogno del mercato globale ma bastano gli spettatori di una decina di paesi, tra cui i maggiori paesi europei più l'Australia, il Messico e il Giappone: il box office americano si compie così. Ma questo tipo di prodotti culturali vengono in qualche modo "testati" già all'interno degli Stati Uniti: in un paese in cui vivono oltre quaranta milioni di latinos e più di quindici di asiatici è facile immaginare un film che possa piacere poi anche in America Latina o nei paesi asiatici. Se perciò un film funziona nel mercato interno americano, che è già un mercato fatto di "diversità" culturali di ogni tipo, ci sono buone possibilità che diventi un successo anche nel resto del mondo.

Nella sua inchiesta lei racconta la nascita dei nuovi centri di produzione dell'intrattenimento un po' ovunque nel mondo, dalla Cina al Nord Africa passando per il Giappone e la Penisola arabica. Non c'è il rischio che da luoghi così diversi e lontani emergano linguaggi simili e talvolta anche gli stessi valori?
In realtà, grazie alle nuove tecnologie, e soprattutto al digitale, paesi come il Brasile, la Russia o l'Indonesia, che hanno già preso in pochi anni il ruolo che era stato di Bollywood, della "fabbrica" dei manga nipponici, o di Al Jazeera, si stanno ritagliando il loro ruolo. Tutti questi centri di produzione puntano a rispondere ai bisogni del loro mercato interno ma si proiettano anche a livello internazionale. Perciò, se osserviamo bene cosa producono ci rendiamo conto che la cultura nazionale non scompare accanto a questa dimensione globale: tutti possiamo essere curiosi di ascoltare Lady Gaga o di vedere Avatar, ma siamo altrettanto curiosi di sapere cosa accede o viene prodotto dal punto di vista artistico o culturale nella nostra comunità, città o regione. Perciò, no, non corriamo il rischio di finire schiacciati dalla cultura "mainstream": c'è spazio per l'intrattenimento e la cultura globale come per quella locale e le nuove tecnologie rendono possibile la coesistenza di questi due elementi.


Liberazione 11/05/2011, pag 7

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